«Nazionalità è per noi unità: unità viva, libera e potente come Stato. E perché noi vogliamo questa unità come libero Stato?
Perché noi sappiamo che solo nella unità come libero Stato possono spiegarsi liberamente tutte le potenze della nostra vita;
solo in quello noi possiamo essere e saperci veramente noi». (Bertrando Spaventa)


martedì 2 febbraio 2010

Rassegna Stampa 19/01/2010 II - I predatori dell'acqua

L'Acquifero Guaranì è il terzo bacino più grande del mondo e il primo per capacità di ricarica. Potrebbe dissetare l'intero pianeta per 200 anni. Ma l'ecosistema amazzonico è minacciato dalle coltivazioni intensive. E dagli interessi di chi vede nelle risorse idriche il business del futuro da Puerto Iguazù - Argentina.


Difficile immaginare la bocca dell'Inferno come un luogo saturo d'acqua. Nella Garganta del Diablo, il punto più caratteristico e suggestivo delle Cascate di Iguazù, incastonate nella porzione di foresta amazzonica attorno alla triplice frontiera tra Brasile, Argentina e Paraguay, la classica iconografia dantesca delle lingue di fuoco, del magma incandescente, e dei vapori asfissianti è rovesciata. Non per questo l'effetto è meno terrificante. C'è il fiume. Non il mitologico Lete, né una colata di lava vulcanica. È l'inquietante e grandioso Iguazù in un momento straordinario di piena. C'è il fragore, ma non quello delle grida dei dannati. Sono 1.800 metri cubi d'acqua al secondo che si schiantano sulle rocce dopo un salto di 80 metri. C'è vapore, ma non sulfureo. È il liquido che si eleva dopo l'urto dell'acqua con la roccia basaltica e satura l'aria in prossimità delle cascate. C'è oscurità, ma non quella degli inferi. È una formazione nuvolosa che nasconde la luce del giorno sulla verticale esatta delle 'fauci di Satana', e che sta per scatenare una violenta tempesta tropicale.
Lo spettacolo prodotto dalla contemporanea collisione di tanti elementi idrici in un punto specifico è colossale e sembra avvertire l'uomo ad avere un maggiore rispetto verso una risorsa, l'acqua, che può essere allo stesso tempo fonte di vita e di morte. Mai come oggi l'ammonimento che viene dalle 'Cataratas' suona appropriato. Qui è infatti l'epicentro e la manifestazione eclatante dell'esistenza di una delle più grandi e importanti riserve d'acqua dolce nel mondo: l'Acquifero Guaranì, oggi al centro di forti interessi commerciali e strategici, e minacciato da un serio pericolo di contaminazione e di estinzione.

Con una estensione stimata approssimativamente in 1.200.000 chilometri quadrati e un volume pari a circa 55 mila chilometri cubici è il Guaranì il terzo acquifero più grande del mondo, ma è considerato il primo in quanto a capacità di ricarica.

Alcuni studi, realizzati in base a modelli matematici, indicano che sarebbe in grado di fornire l'intero pianeta di acqua potabile per i prossimi 200 anni.
Viaggiando per le terre sovrastanti il Sag, Sistema Acquifero Guaranì, non è difficile avvertire le opportunità offerte da questa inestimabile risorsa, e i pericoli insiti nel suo sfruttamento inappropriato. Non lontano da Iguazù, lungo la strada che costeggia il Paranà verso la provincia di Corrientes, all'altezza della città di Posadas, si assiste a una progressiva trasformazione del paesaggio idrico e non. Il corso naturale del fiume, con le sue sponde articolate e irregolari, inizia a perdere forma. La sponda opposta, il vicino Paraguay, improvvisamente scompare. Il fiume diventa mare, un immenso mare color verde. Eppure l'Oceano Atlantico è a centinaia di chilometri, e il Pacifico è al di là delle Ande.
Si tratta dell'enorme bacino formatosi a monte della centrale idroelettrica di Yaciretà, che in idioma guaranì significa 'il luogo dove brilla la luna'. Millecinquecento chilometri quadrati di terra inondati per alimentare l'energia di gran parte dell'Argentina e del Paraguay. Quarantamila persone evacuate. Gigantesche opere di consolidamento, trasformazione e distruzione in corso da vent'anni. Paesaggi surreali e, molto spesso desolazione: la luna stessa.
È l'immagine del progresso che trasforma e violenta la natura oltre ogni limite. "Se fosse stata proposta nel 2000, Yaciretà non sarebbe mai esistita", ammette Pedro Etchegoin, incaricato delle relazioni pubbliche della diga, consapevole che gli standard ecologici attuali non permetterebbero un tale 'ecomostro' neanche qui. Oggi, per compensare i danni prodotti, l'E.B.Y., l'ente bi-nazionale che amministra la diga, ha creato tanti ettari di riserve naturali quanti quelli di terre inondate. Quella del fiume non è l'unica mutazione che si presenta lungo lo stesso cammino. La lussureggiante e rigogliosa vegetazione tropicale che circondava le cascate ha fatto spazio adesso a una ordinata e interminabile foresta di eucalipti e abeti, prodotto della piantagione intensiva di alberi da legna ad accrescimento rapido. Alberi precoci sì, economicamente vantaggiosi anche, ma per questo assolutamente voraci d'acqua del sottosuolo.
A Sud di questa regione si trovano invece le paludi degli 'Esteros de Iberà', 20 mila chilometri quadrati di natura quasi incontaminata e in buona parte inaccessibile, che contengono una delle maggiori ricchezze planetarie in termini di biodiversità. Qui ha deciso di ritirarsi l'imprenditore milionario statunitense Douglas Tompkins che, abbandonata una carriera di successo nel campo tessile, si è convertito all'ecologia 'conservazionista'. Dopo aver acquisito centinaia di migliaia di ettari nella Patagonia cilena ed argentina, Tompkins possiede una buona porzione anche di queste terre. Il fatto che un comune denominatore di tutti i suoi possedimenti sia l'abbondanza d'acqua, sotto forma di ghiacciai o paludi, ha destato sospetti sulle reali intenzioni che soggiacciono a una filosofia ecologista che pretende di privatizzare al fine di preservare. Tompkins non si scompone di fronte alle accuse di alcuni politici nazionalisti locali che lo accusano di essere un agente della Cia, o di chi sospetta che si stia portando via l'acqua. "Ormai mi addormento ogni notte pensando che pazzia si inventeranno domani", ha dichiarato. Dice che alla sua morte donerà ai rispettivi Stati i suoi possedimenti cileni ed argentini, anche se non si capisce perché, se non si fida dell'amministrazione pubblica di oggi, dovrebbe fidarsi di quelle future.
Le coltivazioni intensive sono uno dei grandi problemi che perturbano con certezza già da oggi l'equilibrio idrico del Sag e stanno compromettendo la qualità dell'acqua. Brasile, Paraguay e Uruguay, i paesi in cui l'Acquifero si trova a una profondità minore, attingono direttamente da qui le risorse per irrigare milioni di ettari di campi coltivati a soia transgenica. Anche i cinesi, a corto d'acqua, vengono a coltivare soia qui.
Solo oggi si sta cercando di quantificare esattamente l'entità dello sfruttamento cui è sottoposto il bacino sotterraneo Guaranì ed il suo livello di contaminazione. E neanche qui mancano le polemiche. Gli studi scientifici più avanzati che si sono prodotti sul Sag, sono infatti frutto di un lungo progetto di investigazione iniziato nel 2003 e finanziato quasi interamente dalla Banca mondiale, il Progetto Acquifero Guaranì. La cui realizzazione è però affidata a istituti geofisici tedeschi, olandesi e norvegesi, nonché all'Organizzazione Internazionale per l'Energia Atomica. L'economista italiana Cristiana Gallinoni, autrice di uno studio approfondito sullo sfruttamento delle risorse idriche in Argentina, ed in particolare sull'Acquifero Guaranì, non è la sola ad essere scettica sulle finalità ultime del Pag: "Le informazioni principali sono adesso in mano straniere, l'acqua viene considerata da Argentina, Brasile, Uruguay, Paraguay e dalla Banca mondiale non come un diritto umano da garantire, bensí come una merce, da preservare per finalità economiche". Il coordinatore argentino del progetto, l'ingegnere Jorge Santa Cruz, difende il lavoro svolto e sostiene che "le informazioni raccolte e già pubblicate sono un prezioso strumento in mano alle amministrazioni locali". Ma il punto debole si trova forse proprio qui, nelle amministrazioni locali, province e municipalità dei quattro Stati sudamericani, che gestiscono settorialmente questa risorsa.
Considerando la posta in gioco, si tratta di un potere discrezionale enorme in mano a figure politiche spesso di secondo piano i cui scrupoli di fronte a ingenti offerte private per l'acquisizione di beni altrimenti pubblici sono praticamente nulli. Il fatto che in una terra così ricca di acqua molti soffrano per la sua scarsità, testimonia comunque una gestione inappropriata da parte delle autorità locali. Più di 130 milioni di persone in America Latina non ricevono acqua potabile nelle proprie abitazioni. L'inferno può essere un bicchiere d'acqua sporca, o anche semplicemente vuoto.
Ludovico Mori
(da L'Espresso, 19 gennaio 2010)

Rassegna Stampa 19/01/2010 I - Acqua contesa, Palermo è a secco


[La privatizzazione dell'acqua in Sicilia è stata ed è paradigmatica per comprendere come non si debba fare, lo abbiamo scritto quasi due anni fa, quando certi parallelismi sembravano troppo pasoliniani per essere considerati seriamente. Ora è materia più o meno corrente, visto che la stessa sorte potrebbe toccare al suolo natìo, dove pare essere diventata anche ghiotta materia elettorale. ic]

PROTESTA. Per denunciare la malagestione del servizio idrico Maniaci e Vitale chiudono i rubinetti. Pino Maniaci non finisce mai di stupire. Oggi il direttore di Telejato, nota emittente televisiva impegnata nella lotta contro Cosa nostra, insieme a Salvo Vitale, personaggio vicino a Peppino Impastato, interromperà l’erogazione dell’acqua a Palermo e dintorni e si incatenerà alle pompe di sollevamento, per denunciare la malagestione del sistema di irrigazione nella valle dello Jato e la mancata assunzione di 13 lavoratori a cui era stato promesso il posto. Un gesto, che non potrà passare inosservato, oltre un milione di persone residenti nel comprensorio, rimarranno infatti senz’acqua. A rischio anche il funzionamento dell’aereoporto Falcone Borsellino, collegato alla stessa rete idrica. Dopo cinque anni di proteste, senza alcuna risposta dalla politica, in molti non sono più disposti ad aspettare. «Non ce ne andremo di qui fin quando non otterremo risposte» fa sapere il giornalista più volte minacciato e colpito dalla mafia. Da quando la gestione della diga voluta dal “Gandhi di Sicilia”, Danilo Dolci, per consentire lo sviluppo economico della zona e sottrarre il controllo delle risorse idriche alla mafia, è passata dalla cooperativa di contadini che l’aveva ideata al consorzio di bonifica locale, l’irrigazione delle terre è carente e inadeguata,

«Tanti, troppi - spiega Pino Maniaci - gli agricoltori che hanno perso il raccolto e le famiglie che hanno dovuto rinunciare alla propria fonte di sostentamento». La rete è fatiscente, «sulle condutture realizzate in cemento-amianto - denuncia il direttore di Telejato - non è stata fatta alcuna opera di manutenzione e l’inesperienza dei nuovi gestori ha danneggiato i contadini: alcuni alberi di pesco, per esempio sono stati tagliati alla radici».

La situazione è insostenibile, non fosse altro che per la mancata assunzione dei lavoratori della vecchia cooperativa, a cui, al momento del passaggio era stato promesso l’impiego. La protesta si esprime oggi in un gesto eclatante, la Sicilia reclama giustizia e due dei suoi migliori interpreti danno forma al dissenso.

Rossella Anitori
(da Terra, 19 gennaio 2010)

Rassegna Stampa 29/dicembre 2009 I - Acqua e Protezione civile. Lo Stato si consegna ai privati

«Lo Stato è con voi».Con queste parole Guido Bertolaso ha salutato ieri gli alluvionati di Lucca. Chissà se potrà dire lo stesso tra qualche mese, quando sarà operativa la Protezione Civile Spa varata con il decreto milleproroghe (ma non ancora pubblicata in gazzetta)? È quello che gli chiederanno oggi i lavoratori del dipartimento, in un comunicato di fuoco. Ed è quello che tutti i cittadini dovranno chiedersi, d’ora in poi, in parecchie occasioni. Dove va a finire lo Stato con la Difesa Spa inserita in Finanziaria? Dove va a finire con la privatizzazione obbligatoria dei servizi idrici, disposta nel decreto Ronchi? In questo scorcio del 2009 il centrodestra al potere ha realizzato buona parte del suo disegno demolitore dei servizi pubblici.

NUOVO STATO - Ma non sempre lo Stato è «retrocesso ». Anzi. In alcune occasioni si è fatto fin troppo avanti, invadendo campi che non gli sarebbero propri. È il caso della Banca del Mezzogiorno. Giulio Tremonti avrebbe voluto un’istituzione direttamente dipendente dal Tesoro. Ma la legge lo impedisce, così ha dovuto ripiegare su un comitato promotore «caldeggiato» dal dicastero. Protagonismo pubblico anche nei rapporti (tipicamente di mercato) tra banche e imprese, dove Tremonti ha «benedetto» intese, accordi, concertazioni, solitamente lasciate alle iniziative del business. Così in questi pochi mesi lo Stato ha cambiato forma e funzione: non più garante di servizi universali,ma attore in «giochi» economici. Una trasformazione in cui a perdere sono proprio le fasce deboli. Nella sua lettera d’auguri di fine anno ai dipendenti, Bertolaso parla di «una nuova società destinata a facilitare il nostro lavoro, una diversa struttura per la gestione dei grandi eventi». La Protezione Civile Spa servirebbe a questo: rendere le cose più facili. Non una parola sui rapporti istituzionali con le amministrazioni locali. Il capo dipartimento parla di «una piccola flotta» di persone, che «al timone avrà gente nostra» (vuol dire competente e addestrata dall’esperienza della Protezione Civile).
Ma francamente il senso dell’affiancamento di una «flottiglia» alla «nave madre» non si comprende affatto. Il vero senso resta nascosto: la verità è che se finora lo Stato si faceva garante delle emergenze nazionali, attraverso i canali istituzionali, d’ora in poi si creerà un centro di gare d’appalto che deciderà i lavori da effettuare e le aziende coinvolte.
Non sembra esattamente la stessa cosa. Business e stellette, invece, nella Difesa Spa. Al nuovo organismo, voluto da Ignazio La Russa e dal sottosegretario Guido Crosetto, si affidano le attività di «valorizzazione e gestione, fatta eccezione per quelle di alienazione, degli immobili militari ». Questa la vera partita, che fa gola ai vertici del ministero, chiamati a scegliere l’intero board della nuova società senza alcun filtro pubblico. La foglia di fico, propagandata soprattutto da Crosetto, sono i diritti sull’immagine dei simboli militari che d’ora in poi l’esercito potrà pretendere. Saremmo curiosi di sapere quanto pagherà Mediaset per una ipotetica fiction sui Carabinieri o sui paracadutisti. Tutti da verificare anche i vantaggi economici della privatizzazione dei servizi idrici imposta per decreto agli enti locali. La disposizione è passata grazie alla fiducia, e con parecchi mal di pancia soprattutto della Lega. Nel testo si precisa che la proprietà pubblica del bene acqua dovrà essere garantita (grazie a un emendamento Pd) e che ad andare a gara è soltanto la distribuzione. L'articolo in questione prevede che la gestione dei servizi pubblici locali sarà conferita «in via ordinaria» attraverso gare pubbliche, mentre la gestione in house sarà consentita soltanto in deroga e «per situazioni eccezionali ». Le deroghe alla gara sono soltanto virtuali: lo sanno bene i cittadini che in alcune zone dove il pubblico è efficiente hanno cominciato a protestare. Ma non sono stati ascoltati.

Bianca Di Giovanni
(da L'Unità, 29 dicembre 2009)

lunedì 1 febbraio 2010

Rassegna Stampa 14/07/2009 II - Rifiuti radioattivi, cercasi (disperatamente) una «discarica»


Il ritorno al nucleare vuol dire che in Italia si produrranno nuovamente rifiuti radioattivi in grande quantità. Oltre a trovare i luoghi dove costruire le centrali, il Governo dovrà quindi mettere in conto anche la necessità di individuare il sito unico in cui depositare le scorie. E sicuramente non sarà un lavoro facile. Sulla necessità di costruire un deposito nazionale, gli esperti sono tutti d’accordo. Già oggi la situazione è critica. In Italia le centrali nucleari sono ferme dal 1987; i rifiuti prodotti sino a quel momento, ad eccezione del combustibile, sono rimasti al loro interno in attesa del condizionamento, ovvero di una serie di procedure che servono a mettere in sicurezza le sostanze radioattive. Quando le centrali verranno finalmente smantellate, si dovrà decidere cosa fare di quei 50.000 metri cubi di materiale radioattivo. A questa piccola montagna si devono aggiungere ancora 27.000 metri cubi di rifiuti radioattivi prodotti dall’attività medica e di ricerca stipati per lo più alla Casaccia, vicino al Lago di Bracciano in un deposito che però sta diventando troppo piccolo. Manca la parte qualitativamente più importante: i rifiuti spediti all’estero e che dovrebbero rientrare dopo essere stati trattati. Sono i più preoccupanti perché si tratta del combustibile esaurito, ovvero la fonte di tutta la radioattività delle centrali nucleari: le sostanze a più lungo decadimento. Ne abbiamo mandati 6.000 metri cubi a Sellafield in Inghilterra e altre 235 tonnellate in Francia. Lì saranno “riprocessati”. Questi rifiuti torneranno a casa fra una decina di anni e ci vorrà un posto dove metterli. Se poi produrremo di nuovo energia nucleare, il deposito diventa ancora più necessario. Del resto, l’Italia, quando ha firmato l’accordo per mandare oltralpe il combustibile esaurito, si è impegnata con la Francia a costruire il deposito entro il 2020, ma dove? La prima cosa da fare è cercare di non ripetere gli errori del passato. E’ bene quindi ricordare la storia di Scanzano Jonico. Il 13 novembre del 2003, l’allora Governo Berlusconi individua nella cittadina della Basilicata il luogo dove costruire il deposito unico per le scorie radioattive di medio ed alto livello. Il sito per la costruzione di un deposito geologico profondo viene indicato dal consiglio dei Ministri dopo una valutazione del Servizio Geologico Nazionale. Lo stesso giorno il Sindaco di Scanzano dichiara di essere all’oscuro di tutto: nessuno ha avvertito la popolazione né i suoi rappresentanti che sarebbero arrivati 60.000 metri cubi di scorie tossiche. Dal giorno successivo parte la rivolta: in poche ore nascono associazioni di cittadini contrari alla costruzione del sito. A Scanzano manifestano gli ambientalisti, gli studenti, i commercianti, persino i sacerdoti. Il 23 novembre scendono in piazza più di 100.000 persone. Di fronte ad una presa di posizione così netta, il Governo deve fare marcia indietro. A fine novembre il nome di Scanzano viene cancellato dal decreto. Da allora Scanzano è diventato un monito: così non si fa. Innanzitutto si è capito che il deposito per ora è meglio non farlo geologico, ma di superficie: durerà meno, ma è più facile da costruire e gestire. Tutti gli esperti sono convinti che la scelta del luogo non si possa fare per decreto legge: ci vuole un percorso condiviso. Secondo alcuni bisogna pensare a forme di risarcimento, non solo soldi, ma prospettive di sviluppo. In Francia intorno al sito di La Manche sono sorti una città industriale ed un centro di eccellenza di settore. Il tavolo di concertazione promosso dall’ex-ministro Bersani tra Governo, Regioni, Ispra ed Enea aveva lo scopo di creare un percorso condiviso, ma al momento ancora non si è giunti ad una soluzione del problema: le Regioni sono ancora Una centrale nucleare scettiche.

Cristiana Pulcinelli
(da L’Unità, 14 luglio 200)

Rassegna Stampa 14/107/2009 I - Nucleare, Regioni in rivolta dal governo piano-militare


Il nucleare sarà pure a scopo civile, ma le nuove centrali saranno realizzate in siti militari. E del resto il governo non potrebbe fare altrimenti, visto che praticamente tutte le Regioni italiane hanno già fatto sapere che non intendono ospitare un reattore. Così, quattro giorni dopo che il Senato ha approvato definitivamente la legge che riapre al nucleare, da un lato il ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo si affretta a dire che «sono prematuri i tempi per ipotizzare i siti» dove verranno costruite le centrali, e «prematuri» rimarranno fino alle regionali del 2010, per evidenti motivi. Dall’altro, di fronte al niet di governatori sia di centrosinistra che di centrodestra, il governo sta lavorando per sottrarre i siti che verranno scelti al controllo non solo delle Autonomie locali, ma anche di Parlamento e magistratura.

IL NO DELLE REGIONI

Solo così il governo può riuscire a imporre la politica del ritorno al nucleare. Il ministro per lo Sviluppo economico Claudio Scajola sostiene che oggi molti enti locali sono pronti ad accogliere centrali sul loro territorio, ma chi siano questi fantomatici volontari è un mistero che dura da un bel po’ di tempo. Si sa invece che il governatore dell’Emilia-Romagna, Vasco Errani, che ricopre anche il ruolo di presidente della Conferenza delle regioni, critica duramente il governo perché «ha imboccato una strada sbagliata e procede in modo unilaterale». Posizione analoga per Mercedes Bresso, Piemonte: «Si tratta di un errore da ogni punto di vista, strategico, economico, della sicurezza». Due no che pesano doppiamente, visto che tra le ipotesi su cui sta ragionando il governo per risolvere in un colpo solo sia il problema delle autorizzazioni che quello dello smantellamento dei vecchi impianti, c’è quella di installare i nuovi reattori proprio nei siti delle centrali che dopo il referendum dell’ 87 sono state lasciate a girare a basso regime, a cominciare da Caorso (che si trova nella prima regione) e Trino Vercellese (seconda). Ma pesanti no arrivano anche dalla Toscana («contrarissimo» si dice Claudio Martini), dal Lazio («il futuro è nelle tecnologie pulite», sostiene Piero Marrazzo), dalla Basilicata («scelta inopinosa e avventurata» è per Vito De Filippo quella del governo), dalla Puglia («dovranno venire con i carri armati», promette Nichi Vendola). Tutte voci di centrosinistra e quindi a rischio passaggio di testimone nel 2010? Il fatto è che anche dal centrodestra stanno arrivando secchi rifiuti. Bisognerà vedere se alle parole seguiranno i fatti, ma intanto il presidente della Sardegna Ugo Cappellacci sostiene che «dovrebbero passare sul mio corpo» per installare un reattore sull’isola e quello dell’Abruzzo Gianni Chiodi fa notare che la sua terra non è «idonea per le sue caratteristiche morfologiche e sismiche a ospitare un sito».

SITI MILITARI

E allora si spiega perché il governo stia preparando una exit strategy ricorrendo all’aiuto dei militari. Ora che è diventato legge il ddl Sviluppo, contenente il ritorno al nucleare, può ripartire un altro disegno di legge che non casualmente finora è stato tenuto fermo in commissione Difesa al Senato. Si tratta di un provvedimento che prevede la creazione di una società di diritto pubblico denominata Difesa Servizi Spa. Il combinato disposto delle due norme consentirebbe la creazione di centrali in siti militari, visto che ora la Difesa può utilizzarli «con la finalità di installare impianti energetici destinati al miglioramento del quadro di approvvigionamento strategico dell’energia». E per farlo il ministero, una volta approvato il secondo ddl, «può stipulare accordi con imprese a partecipazione pubblica». Proprio come la Difesa Servizi Spa. A quel punto, le centrali nucleari sarebbero fuori dal controllo di altre autorità, protette dietro il cartello «Zona militare».

Simone Collini
(da L’Unità, 14 luglio 2009)

Rassegna Stampa 04/11/2009 - «Minacce, bombe e omertà. Mercato inquinato a Milano»


MILANO — Per la prima volta contestato a Milano alla stregua che a Platì o Corleone, il reato si chiama «illecita concorrenza e turbativa al mercato con minaccia o violenza». Ma le intercettazioni di Dia, Gico e carabinieri lo fanno capire molto meglio. Sei un imprenditore e stai decidendo a chi affidare il subappalto per gli scavi e il movimento terra nel tuo cantiere nella cintura sud dell’hinterland milanese, colonizzata decenni fa dalle famiglie storiche della ’ndrangheta al Nord. Io, che sono pure un imprenditore — volto ufficiale la società in via Montenapoleone, volto oscuro la compartecipazione in affari immobiliari con i rampolli di terza generazione delle cosche Barbaro e Papalia trapiantate a Buccinasco, Assago, Corsico, Cesano Boscone, Trezzano sul Naviglio — «ho due persone da presentarti. Anzi una non te la presento, per gli scavi ti faccio solo fare un preventivo da un ragazzo preciso. Un bravo ragazzo». Naturalmente «se sei d’accordo, senza alcun impegno». Per carità, sei libero di scegliere a chi dare il lavoro, in fondo anche quell’al¬tro fornitore «non è che non sia un bravo ragazzo». Ma sai com’è, «il mondo degli scavi è un mondo diverso, diverso», e a volte richiede «degli equilibri ». E’ vero che, con quell’al¬tro, risparmieresti 40mila euro sul lavoro: solo che «quello te lo può fare pure a gratis, ma come ci sono dei problemi, lui sicuramente non ti risolve un problema che posso risolverti io!» . E’ tutta questione di «problemi » possibili. Di che tipo, lo elencano 250 pagine di ordinanza per arrestare ieri 17 persone e sequestrare case e società per 5 milioni di euro: automezzi fatti saltare in aria, agenzie immobiliari bruciate, gente dubbiosa persuasa da colpi di pistola sparati alle finestre della camera da letto, un perito del Tribunale corrotto («il geometra la perizia la fa come glielo abbiamo detto di fare noi») per comprare a prezzo stracciato un prezioso terreno alle aste giudiziarie. E imprenditori mezzo terrorizzati e mezzo collusi con chi tra l’altro dava asilo a un latitante in fuga dall’Aspromonte; seppelliva detriti non nelle apposite discariche ma in un cantiere sulla linea ferroviaria Milano-Mortara; e in una Lancia Lybra nascosta in un box di Assago custodiva un arsenale di mitragliatori, pistole semiautomatiche, fucili, bombe a mano di fabbricazione jugoslava. E’ «di estremo allarme — scrive sconfortato il gip Giuseppe Gennari a proposito del materiale offertogli dai pm Boccassini, Dolci, Venditti e Storari— il fatto che, da anni, tra imprenditori milanesi si consideri un dato ineluttabile che determinati lavori in campo edile siano totalmente sottratti alle regole del mercato e della concorrenza » . Eccone uno che, ignaro di essere intercettato mentre si sfoga con un amico, inveisce contro quelli che «buttano bombe a destra e sinistra, gentaglia di m...», salvo poi, quando viene convocato dagli inquirenti, assicurare invece che sarebbero «persone con me sempre gentili e rispettose». Eccone un altro che, per paura, per un anno lascia ai genitori di un boss l’uso gratis di una casa, ma ai pm lo garantisce «una persona sicuramente affabile». Eccone ancora altri barcamenarsi: «Uno di quelli 'pesanti' mi ha detto: 'Quel signore lavora con voi', e io ho detto: no, non è corretto, lavora per noi».
Del resto, è a due passi dal Duomo che un imprenditore racconta che ci si rivolge al boss di zona come ormai forse nemmeno più succede nei vicoli di camorra: «In zona tutti si rivolgevano a lui per i più sva¬riati problemi: ad esempio a lui si chiedevano informazioni in caso di furto della macchina. Era la persona che nel momento del bisogno poteva darti un mano a risolvere i problemi». Il pm Boccassini annuncia «una linea di durezza verso gli imprenditori border line: l'im¬prenditoria sana deve capire che bisogna stare con lo Stato, non contro, e che non può ac¬cettare le violenze mafiose per propri tornaconti». Ma intanto il gip scatta solo tre tipi di foto d’azienda: «Vi è chi decide sem¬plicemente di autoesiliarsi per non incontrare la strada dei 'ca¬labresi' » e va a lavorare altrove, anche a costo di affrontare «costi maggiori del 10%. Vi è chi accetta le regole del gioco evitando fastidi e problemi. E vi è chi va anche oltre, intessendo rapporti che esorbitano l’ordinaria commessa lavorativa. Se poi qualcuno dimentica le regole, il fuoco appiccato o l’ordigno esplosivo sono un buon metodo per richiamare la memoria » . Solo quando indispensabile, s’intende. Perché il boss di turno è sempre pronto a portare la 'sua' pace. «Speriamo che qua tutta questa situazione la risolviate consiglia ad esem¬pio a chi sta litigando troppo per un debito —. Vedete come la potete passare, come la potete risolvere, sennò...ve lo giuro, sennò a me mi dispiace».

Alberto Berticelli
Luigi Ferrarella
(da CorriereCronache = http://www.corriere.it/cronache/09_novembre_04/minacce-bombe-omerta-mercato-milano_d1ee5b0c-c910-11de-a52f-00144f02aabc.shtm, 04 novembre 2009)

Rassegna Stampa 17/03/2009 - In Lombardia il ponte di comando della 'ndrangheta


La nuova forma dello Stato è materia di polemiche politiche ma, in compenso, il federalismo criminale è già realtà. E la capitale scelta è Milano. Il giorno in cui la Direzione distrettuale antimafia del capoluogo arresta 20 presunti appartenenti a due cosche che in Calabria si fanno la guerra ma in Lombardia fanno la pace in nome di affari milionari, la relazione della Dna – chiusa nel cassetto del Procuratore nazionale antimafia Piero Grasso – rivela che la 'ndrangheta si sta ormai impossessando della regione.
Intere parti della Lombardia – come Buccinasco, dove decine di imprese edili sono in odore di mafia – sono ostaggio degli appetiti delle 'ndrine ma quel che sorprende nel documento consegnato a Grasso dal sostituto procuratore antimafia Vincenzo Macrì è scoprire l'asse sempre più stretto tra Milano e Brescia, dove le cosche procacciano affari anche grazie all'ingresso della mafia russa. La relazione della Dna mette a nudo una realtà che – in vista di Expo 2015 – va affrontata con realismo e fermezza: il baricentro delle decisioni strategiche non è più San Luca ma Milano dove la 'ndrangheta, ormai, è di terza generazione.
Se la politica cerca di riempire di contenuti il federalismo, la 'ndrangheta lo ha già fatto. Ha deciso che Milano è la nuova capitale dell'Italia criminale federata e in vista di Expo 2015 ha anche scelto di rinforzare l'asse con una città ponte verso i ricchi traffici, italiani ed europei, del Nord-Est: Brescia. Come sempre, le cosche sono avanti, più avanti di chi dovrebbe sconfiggerle. E anche gli arresti e i sequestri milionari di ieri a Milano dimostrano che la Lombardia è ormai terreno di conquista per le cosche.
A metterlo nero su bianco è Vincenzo Macrì, sostituto procuratore nazionale antimafia. «Non ci sono più tanti satelliti che ruotano intorno a un unico sole, la 'ndrangheta di San Luca - scrive nella sua relazione consegnata poco più di un mese fa al suo capo, Piero Grasso -, ma una struttura federata, disposta a dialogare con la vecchia casa-madre, ma non più a dipendere da essa, sia quanto alla nomina dei responsabili della periferia dell'Impero, sia quanto all'adozione delle nuove strategie e alla condivisione dei profitti».
Eccolo il motivo per il quale quest'anno - per la prima volta - la Dna, Direzione nazionale antimafia, ha deciso di secretare l'intera relazione. Quasi 900 pagine chiuse a chiave in pochi cassetti e accompagnate da una lettera del procuratore capo, Grasso, con divieto di divulgazione agli uffici.
Grasso, quest'anno, non poteva permettere che la relazione - a partire dalle dense e sorprendenti considerazioni sulla 'ndrangheta - uscisse fuori dai confini di chi - ogni giorno - è in prima linea a combattere la criminalità. Grasso non poteva tollerare la diffusione delle pagine dedicate alla 'ndrangheta che con il suo fatturato annuo di 44 miliardi (stime Eurispes) è ormai l'organizzazione criminale più forte al mondo. Forte dell'asse con i narcos colombiani. Una 'ndrangheta talmente pervasiva che non c'è pagina - nei contributi consegnati dalle 26 Direzioni distrettuali alla Direzione nazionale - che non trasudi di investimenti, prestanomi, traffici e corruzioni a opera di esponenti delle cosche calabresi o ad essi vicini. Una 'ndrangheta che compra tutto e, quando non può, delegittima, calunnia e isola. E uccide.
Il Sole 24 Ore ha la relazione ma, per non ostacolare le indagini, si astiene dal pubblicarne stralci e si limita a fornire il quadro d'insieme divulgando alcuni passi utili a comprendere il fenomeno, privi di qualunque dato coperto dal segreto. A pagina 117 si legge testualmente che «si è alla vigilia di una vera e propria rivoluzione copernicana... La 'ndrangheta avrà in tal modo completato il suo lungo percorso di occupazione della più ricca e produttiva regione del Paese: la Lombardia».
E non sarà un'occupazione precaria, ma definitiva, con strutture permanenti di direzione, con il territorio rigidamente suddiviso. «In pratica - secondo la relazione, anch'essa secretata ma acquisita agli atti, della Direzione distrettuale di Milano -, corpi separati ma provenienti dal medesimo ceppo e viventi nell'ambito di quella che può definirsi una coesistenza autonoma ma interattiva».

Nel giro di pochi anni - se le indagini dovessero confermare il quadro della Dna, ma appare scontato - i rapporti di forza si ribalterebbero: i centri decisionali si sposteranno sempre di più dalla Calabria alla Lombardia. Non è un caso che i boss Paolo Sergi e Antonio Piromalli siano stati recentemente arrestati a Milano, da dove - secondo gli investigatori e gli inquirenti - dirigevano i traffici internazionali di droga e curavano i collegamenti con il mondo politico e delle istituzioni.

Ma se la situazione di Milano e dell'hinterland - come ad esempio Buccinasco, che nella relazione di Macrì viene descritto come un territorio sottoposto passivamente alla conquista delle cosche fin dagli anni 70 - quel che sorprende è scoprire che Brescia e la sua provincia siano entrate ormai a pieno titolo nelle maglie della 'ndrangheta. Le cosche «condizionavano e condizionano il tessuto sociale e le iniziative d'intrapresa finanziaria», scrive Macrì. Un assalto in piena regola, agevolato dalla complicità delle mafie straniere, in primo luogo di quella russa. «In particolare - si legge nel contributo messo a disposizione della Direzione distrettuale di Brescia - i calabresi appaiono svolgere il ruolo di procacciatori d'affari per i soggetti stranieri e in tale contesto si è rivelato persino l'interessamento per l'acquisto di una raffineria».
L'allarme della Direzione nazionale antimafia non prescinde da Expo 2015, sulla quale Stato ed enti locali non trovano accordi: la 'ndrangheta si è già piazzata con omicidi (tre in pochi mesi) e spartizioni già decise o in via di definizione. Accordi che lasceranno briciole (sostanziose) anche a Cosa Nostra e Camorra, ormai costrette a venire a patti con chi è più forte di loro. «Gli interessi in gioco con Expo 2015 - si legge nella relazione - sono maggiori persino di quelli ipotizzabili dalla realizzazione del Ponte sullo Stretto di Messina».
Di fronte a questa prospettiva, lo Stato prova ad attrezzarsi al meglio e il Comune di Milano tenta di conciliare le esigenze di chi vorrebbe istituire una Commissione municipale sul fenomeno mafioso con quelle di chi - forte anche del parere negativo del prefetto del capoluogo Gian Valerio Lombardi - ne farebbe volentieri a meno.
Commissione sì o commissione no, ciò che conta è che la politica prenda consapevolezza del fatto che Milano e la Lombardia non sono più solo le capitali morali, produttive e finanziarie del Paese, ma sono anche i capisaldi intorno ai quali la narcofinanza calabrese ha deciso di far girare tutti i traffici e le vie del riciclaggio del denaro sporco. Gli arresti di ieri - per chi avesse ancora dubbi - sono lì a ricordarlo.

Roberto Galullo
(da http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Italia/2009/03/ndrangheta-ponte-comando-lombardia_2.shtm, 17 marzo 2009)