«Nazionalità è per noi unità: unità viva, libera e potente come Stato. E perché noi vogliamo questa unità come libero Stato?
Perché noi sappiamo che solo nella unità come libero Stato possono spiegarsi liberamente tutte le potenze della nostra vita;
solo in quello noi possiamo essere e saperci veramente noi». (Bertrando Spaventa)


martedì 21 settembre 2010

Avviso 21 settembre 2010

Si comunica che, a partire dal giorno 23/09/2010, il Gruppo di Studio di Giurisprudenza si riunirà ogni giovedì alle ore 10:00 presso la sede della Facoltà di Giurisprudenza dell'Università "Federico II" di Napoli detta "Palazzo di vetro", sita a via Porta di Massa 32, incontrandosi al bar al secondo piano e poi trasferendosi nell'Aula Studio al terzo piano.

L'incontro è aperto a tutti. Chiunque, previa comunicazione, si può autoinvitare.
Gli invitati che non conoscono la strada possono prendere accordi con un membro del GSG per recarsi insieme nel luogo dell'appuntamento.
L'orario e il luogo della riunione possono essere spostati a richiesta anche di una sola persona, ma è necessaria una garanzia della presenza dell'interessato.

Per informazioni:
email: gruppostudiogiurisprudenza@gmail.com
contatto Facebook: "Gruppo Giurisprudenza" (nome e cognome)
canale YouTube: http://www.youtube.com/user/GruppoStudioGiurispr?feature=mhum

mercoledì 15 settembre 2010

Si comunica che, a partire dalla prossima settimana, gli incontri del GSG riprenderanno a svolgersi regolamente. L'orario e il luogo verranno comunicati a breve nei prossimi post.

mercoledì 30 giugno 2010

Avviso 21 giugno 2010

Si comunica che, a partire dal giorno 24/06/2010, il Gruppo di Studio di Giurisprudenza si riunirà alle ore 09:30 invece che alle ore 12:30 come in precedenza. La sede rimarrà invariata (presso la sede della Facoltà di Giurisprudenza dell'Università "Federico II" di Napoli detta "Palazzo di vetro", sita a via Porta di Massa 32, incontro al bar al secondo piano e poi trasferimento nell'Aula Studio al terzo piano).

domenica 7 marzo 2010

Avviso 7 marzo 2010

Si comunica che, a partire dal giorno 11/03/2010, il Gruppo di Studio di Giurisprudenza si riunirà alle ore 12:30 invece che alle ore 09:00. La sede rimarrà invariata (presso la sede della Facoltà di Giurisprudenza dell'Università "Federico II" di Napoli detta "Palazzo di vetro", sita a via Porta di Massa 32, nell'Aula Studio al terzo piano).

martedì 2 febbraio 2010

Rassegna Stampa 19/01/2010 II - I predatori dell'acqua

L'Acquifero Guaranì è il terzo bacino più grande del mondo e il primo per capacità di ricarica. Potrebbe dissetare l'intero pianeta per 200 anni. Ma l'ecosistema amazzonico è minacciato dalle coltivazioni intensive. E dagli interessi di chi vede nelle risorse idriche il business del futuro da Puerto Iguazù - Argentina.


Difficile immaginare la bocca dell'Inferno come un luogo saturo d'acqua. Nella Garganta del Diablo, il punto più caratteristico e suggestivo delle Cascate di Iguazù, incastonate nella porzione di foresta amazzonica attorno alla triplice frontiera tra Brasile, Argentina e Paraguay, la classica iconografia dantesca delle lingue di fuoco, del magma incandescente, e dei vapori asfissianti è rovesciata. Non per questo l'effetto è meno terrificante. C'è il fiume. Non il mitologico Lete, né una colata di lava vulcanica. È l'inquietante e grandioso Iguazù in un momento straordinario di piena. C'è il fragore, ma non quello delle grida dei dannati. Sono 1.800 metri cubi d'acqua al secondo che si schiantano sulle rocce dopo un salto di 80 metri. C'è vapore, ma non sulfureo. È il liquido che si eleva dopo l'urto dell'acqua con la roccia basaltica e satura l'aria in prossimità delle cascate. C'è oscurità, ma non quella degli inferi. È una formazione nuvolosa che nasconde la luce del giorno sulla verticale esatta delle 'fauci di Satana', e che sta per scatenare una violenta tempesta tropicale.
Lo spettacolo prodotto dalla contemporanea collisione di tanti elementi idrici in un punto specifico è colossale e sembra avvertire l'uomo ad avere un maggiore rispetto verso una risorsa, l'acqua, che può essere allo stesso tempo fonte di vita e di morte. Mai come oggi l'ammonimento che viene dalle 'Cataratas' suona appropriato. Qui è infatti l'epicentro e la manifestazione eclatante dell'esistenza di una delle più grandi e importanti riserve d'acqua dolce nel mondo: l'Acquifero Guaranì, oggi al centro di forti interessi commerciali e strategici, e minacciato da un serio pericolo di contaminazione e di estinzione.

Con una estensione stimata approssimativamente in 1.200.000 chilometri quadrati e un volume pari a circa 55 mila chilometri cubici è il Guaranì il terzo acquifero più grande del mondo, ma è considerato il primo in quanto a capacità di ricarica.

Alcuni studi, realizzati in base a modelli matematici, indicano che sarebbe in grado di fornire l'intero pianeta di acqua potabile per i prossimi 200 anni.
Viaggiando per le terre sovrastanti il Sag, Sistema Acquifero Guaranì, non è difficile avvertire le opportunità offerte da questa inestimabile risorsa, e i pericoli insiti nel suo sfruttamento inappropriato. Non lontano da Iguazù, lungo la strada che costeggia il Paranà verso la provincia di Corrientes, all'altezza della città di Posadas, si assiste a una progressiva trasformazione del paesaggio idrico e non. Il corso naturale del fiume, con le sue sponde articolate e irregolari, inizia a perdere forma. La sponda opposta, il vicino Paraguay, improvvisamente scompare. Il fiume diventa mare, un immenso mare color verde. Eppure l'Oceano Atlantico è a centinaia di chilometri, e il Pacifico è al di là delle Ande.
Si tratta dell'enorme bacino formatosi a monte della centrale idroelettrica di Yaciretà, che in idioma guaranì significa 'il luogo dove brilla la luna'. Millecinquecento chilometri quadrati di terra inondati per alimentare l'energia di gran parte dell'Argentina e del Paraguay. Quarantamila persone evacuate. Gigantesche opere di consolidamento, trasformazione e distruzione in corso da vent'anni. Paesaggi surreali e, molto spesso desolazione: la luna stessa.
È l'immagine del progresso che trasforma e violenta la natura oltre ogni limite. "Se fosse stata proposta nel 2000, Yaciretà non sarebbe mai esistita", ammette Pedro Etchegoin, incaricato delle relazioni pubbliche della diga, consapevole che gli standard ecologici attuali non permetterebbero un tale 'ecomostro' neanche qui. Oggi, per compensare i danni prodotti, l'E.B.Y., l'ente bi-nazionale che amministra la diga, ha creato tanti ettari di riserve naturali quanti quelli di terre inondate. Quella del fiume non è l'unica mutazione che si presenta lungo lo stesso cammino. La lussureggiante e rigogliosa vegetazione tropicale che circondava le cascate ha fatto spazio adesso a una ordinata e interminabile foresta di eucalipti e abeti, prodotto della piantagione intensiva di alberi da legna ad accrescimento rapido. Alberi precoci sì, economicamente vantaggiosi anche, ma per questo assolutamente voraci d'acqua del sottosuolo.
A Sud di questa regione si trovano invece le paludi degli 'Esteros de Iberà', 20 mila chilometri quadrati di natura quasi incontaminata e in buona parte inaccessibile, che contengono una delle maggiori ricchezze planetarie in termini di biodiversità. Qui ha deciso di ritirarsi l'imprenditore milionario statunitense Douglas Tompkins che, abbandonata una carriera di successo nel campo tessile, si è convertito all'ecologia 'conservazionista'. Dopo aver acquisito centinaia di migliaia di ettari nella Patagonia cilena ed argentina, Tompkins possiede una buona porzione anche di queste terre. Il fatto che un comune denominatore di tutti i suoi possedimenti sia l'abbondanza d'acqua, sotto forma di ghiacciai o paludi, ha destato sospetti sulle reali intenzioni che soggiacciono a una filosofia ecologista che pretende di privatizzare al fine di preservare. Tompkins non si scompone di fronte alle accuse di alcuni politici nazionalisti locali che lo accusano di essere un agente della Cia, o di chi sospetta che si stia portando via l'acqua. "Ormai mi addormento ogni notte pensando che pazzia si inventeranno domani", ha dichiarato. Dice che alla sua morte donerà ai rispettivi Stati i suoi possedimenti cileni ed argentini, anche se non si capisce perché, se non si fida dell'amministrazione pubblica di oggi, dovrebbe fidarsi di quelle future.
Le coltivazioni intensive sono uno dei grandi problemi che perturbano con certezza già da oggi l'equilibrio idrico del Sag e stanno compromettendo la qualità dell'acqua. Brasile, Paraguay e Uruguay, i paesi in cui l'Acquifero si trova a una profondità minore, attingono direttamente da qui le risorse per irrigare milioni di ettari di campi coltivati a soia transgenica. Anche i cinesi, a corto d'acqua, vengono a coltivare soia qui.
Solo oggi si sta cercando di quantificare esattamente l'entità dello sfruttamento cui è sottoposto il bacino sotterraneo Guaranì ed il suo livello di contaminazione. E neanche qui mancano le polemiche. Gli studi scientifici più avanzati che si sono prodotti sul Sag, sono infatti frutto di un lungo progetto di investigazione iniziato nel 2003 e finanziato quasi interamente dalla Banca mondiale, il Progetto Acquifero Guaranì. La cui realizzazione è però affidata a istituti geofisici tedeschi, olandesi e norvegesi, nonché all'Organizzazione Internazionale per l'Energia Atomica. L'economista italiana Cristiana Gallinoni, autrice di uno studio approfondito sullo sfruttamento delle risorse idriche in Argentina, ed in particolare sull'Acquifero Guaranì, non è la sola ad essere scettica sulle finalità ultime del Pag: "Le informazioni principali sono adesso in mano straniere, l'acqua viene considerata da Argentina, Brasile, Uruguay, Paraguay e dalla Banca mondiale non come un diritto umano da garantire, bensí come una merce, da preservare per finalità economiche". Il coordinatore argentino del progetto, l'ingegnere Jorge Santa Cruz, difende il lavoro svolto e sostiene che "le informazioni raccolte e già pubblicate sono un prezioso strumento in mano alle amministrazioni locali". Ma il punto debole si trova forse proprio qui, nelle amministrazioni locali, province e municipalità dei quattro Stati sudamericani, che gestiscono settorialmente questa risorsa.
Considerando la posta in gioco, si tratta di un potere discrezionale enorme in mano a figure politiche spesso di secondo piano i cui scrupoli di fronte a ingenti offerte private per l'acquisizione di beni altrimenti pubblici sono praticamente nulli. Il fatto che in una terra così ricca di acqua molti soffrano per la sua scarsità, testimonia comunque una gestione inappropriata da parte delle autorità locali. Più di 130 milioni di persone in America Latina non ricevono acqua potabile nelle proprie abitazioni. L'inferno può essere un bicchiere d'acqua sporca, o anche semplicemente vuoto.
Ludovico Mori
(da L'Espresso, 19 gennaio 2010)

Rassegna Stampa 19/01/2010 I - Acqua contesa, Palermo è a secco


[La privatizzazione dell'acqua in Sicilia è stata ed è paradigmatica per comprendere come non si debba fare, lo abbiamo scritto quasi due anni fa, quando certi parallelismi sembravano troppo pasoliniani per essere considerati seriamente. Ora è materia più o meno corrente, visto che la stessa sorte potrebbe toccare al suolo natìo, dove pare essere diventata anche ghiotta materia elettorale. ic]

PROTESTA. Per denunciare la malagestione del servizio idrico Maniaci e Vitale chiudono i rubinetti. Pino Maniaci non finisce mai di stupire. Oggi il direttore di Telejato, nota emittente televisiva impegnata nella lotta contro Cosa nostra, insieme a Salvo Vitale, personaggio vicino a Peppino Impastato, interromperà l’erogazione dell’acqua a Palermo e dintorni e si incatenerà alle pompe di sollevamento, per denunciare la malagestione del sistema di irrigazione nella valle dello Jato e la mancata assunzione di 13 lavoratori a cui era stato promesso il posto. Un gesto, che non potrà passare inosservato, oltre un milione di persone residenti nel comprensorio, rimarranno infatti senz’acqua. A rischio anche il funzionamento dell’aereoporto Falcone Borsellino, collegato alla stessa rete idrica. Dopo cinque anni di proteste, senza alcuna risposta dalla politica, in molti non sono più disposti ad aspettare. «Non ce ne andremo di qui fin quando non otterremo risposte» fa sapere il giornalista più volte minacciato e colpito dalla mafia. Da quando la gestione della diga voluta dal “Gandhi di Sicilia”, Danilo Dolci, per consentire lo sviluppo economico della zona e sottrarre il controllo delle risorse idriche alla mafia, è passata dalla cooperativa di contadini che l’aveva ideata al consorzio di bonifica locale, l’irrigazione delle terre è carente e inadeguata,

«Tanti, troppi - spiega Pino Maniaci - gli agricoltori che hanno perso il raccolto e le famiglie che hanno dovuto rinunciare alla propria fonte di sostentamento». La rete è fatiscente, «sulle condutture realizzate in cemento-amianto - denuncia il direttore di Telejato - non è stata fatta alcuna opera di manutenzione e l’inesperienza dei nuovi gestori ha danneggiato i contadini: alcuni alberi di pesco, per esempio sono stati tagliati alla radici».

La situazione è insostenibile, non fosse altro che per la mancata assunzione dei lavoratori della vecchia cooperativa, a cui, al momento del passaggio era stato promesso l’impiego. La protesta si esprime oggi in un gesto eclatante, la Sicilia reclama giustizia e due dei suoi migliori interpreti danno forma al dissenso.

Rossella Anitori
(da Terra, 19 gennaio 2010)

Rassegna Stampa 29/dicembre 2009 I - Acqua e Protezione civile. Lo Stato si consegna ai privati

«Lo Stato è con voi».Con queste parole Guido Bertolaso ha salutato ieri gli alluvionati di Lucca. Chissà se potrà dire lo stesso tra qualche mese, quando sarà operativa la Protezione Civile Spa varata con il decreto milleproroghe (ma non ancora pubblicata in gazzetta)? È quello che gli chiederanno oggi i lavoratori del dipartimento, in un comunicato di fuoco. Ed è quello che tutti i cittadini dovranno chiedersi, d’ora in poi, in parecchie occasioni. Dove va a finire lo Stato con la Difesa Spa inserita in Finanziaria? Dove va a finire con la privatizzazione obbligatoria dei servizi idrici, disposta nel decreto Ronchi? In questo scorcio del 2009 il centrodestra al potere ha realizzato buona parte del suo disegno demolitore dei servizi pubblici.

NUOVO STATO - Ma non sempre lo Stato è «retrocesso ». Anzi. In alcune occasioni si è fatto fin troppo avanti, invadendo campi che non gli sarebbero propri. È il caso della Banca del Mezzogiorno. Giulio Tremonti avrebbe voluto un’istituzione direttamente dipendente dal Tesoro. Ma la legge lo impedisce, così ha dovuto ripiegare su un comitato promotore «caldeggiato» dal dicastero. Protagonismo pubblico anche nei rapporti (tipicamente di mercato) tra banche e imprese, dove Tremonti ha «benedetto» intese, accordi, concertazioni, solitamente lasciate alle iniziative del business. Così in questi pochi mesi lo Stato ha cambiato forma e funzione: non più garante di servizi universali,ma attore in «giochi» economici. Una trasformazione in cui a perdere sono proprio le fasce deboli. Nella sua lettera d’auguri di fine anno ai dipendenti, Bertolaso parla di «una nuova società destinata a facilitare il nostro lavoro, una diversa struttura per la gestione dei grandi eventi». La Protezione Civile Spa servirebbe a questo: rendere le cose più facili. Non una parola sui rapporti istituzionali con le amministrazioni locali. Il capo dipartimento parla di «una piccola flotta» di persone, che «al timone avrà gente nostra» (vuol dire competente e addestrata dall’esperienza della Protezione Civile).
Ma francamente il senso dell’affiancamento di una «flottiglia» alla «nave madre» non si comprende affatto. Il vero senso resta nascosto: la verità è che se finora lo Stato si faceva garante delle emergenze nazionali, attraverso i canali istituzionali, d’ora in poi si creerà un centro di gare d’appalto che deciderà i lavori da effettuare e le aziende coinvolte.
Non sembra esattamente la stessa cosa. Business e stellette, invece, nella Difesa Spa. Al nuovo organismo, voluto da Ignazio La Russa e dal sottosegretario Guido Crosetto, si affidano le attività di «valorizzazione e gestione, fatta eccezione per quelle di alienazione, degli immobili militari ». Questa la vera partita, che fa gola ai vertici del ministero, chiamati a scegliere l’intero board della nuova società senza alcun filtro pubblico. La foglia di fico, propagandata soprattutto da Crosetto, sono i diritti sull’immagine dei simboli militari che d’ora in poi l’esercito potrà pretendere. Saremmo curiosi di sapere quanto pagherà Mediaset per una ipotetica fiction sui Carabinieri o sui paracadutisti. Tutti da verificare anche i vantaggi economici della privatizzazione dei servizi idrici imposta per decreto agli enti locali. La disposizione è passata grazie alla fiducia, e con parecchi mal di pancia soprattutto della Lega. Nel testo si precisa che la proprietà pubblica del bene acqua dovrà essere garantita (grazie a un emendamento Pd) e che ad andare a gara è soltanto la distribuzione. L'articolo in questione prevede che la gestione dei servizi pubblici locali sarà conferita «in via ordinaria» attraverso gare pubbliche, mentre la gestione in house sarà consentita soltanto in deroga e «per situazioni eccezionali ». Le deroghe alla gara sono soltanto virtuali: lo sanno bene i cittadini che in alcune zone dove il pubblico è efficiente hanno cominciato a protestare. Ma non sono stati ascoltati.

Bianca Di Giovanni
(da L'Unità, 29 dicembre 2009)

lunedì 1 febbraio 2010

Rassegna Stampa 14/07/2009 II - Rifiuti radioattivi, cercasi (disperatamente) una «discarica»


Il ritorno al nucleare vuol dire che in Italia si produrranno nuovamente rifiuti radioattivi in grande quantità. Oltre a trovare i luoghi dove costruire le centrali, il Governo dovrà quindi mettere in conto anche la necessità di individuare il sito unico in cui depositare le scorie. E sicuramente non sarà un lavoro facile. Sulla necessità di costruire un deposito nazionale, gli esperti sono tutti d’accordo. Già oggi la situazione è critica. In Italia le centrali nucleari sono ferme dal 1987; i rifiuti prodotti sino a quel momento, ad eccezione del combustibile, sono rimasti al loro interno in attesa del condizionamento, ovvero di una serie di procedure che servono a mettere in sicurezza le sostanze radioattive. Quando le centrali verranno finalmente smantellate, si dovrà decidere cosa fare di quei 50.000 metri cubi di materiale radioattivo. A questa piccola montagna si devono aggiungere ancora 27.000 metri cubi di rifiuti radioattivi prodotti dall’attività medica e di ricerca stipati per lo più alla Casaccia, vicino al Lago di Bracciano in un deposito che però sta diventando troppo piccolo. Manca la parte qualitativamente più importante: i rifiuti spediti all’estero e che dovrebbero rientrare dopo essere stati trattati. Sono i più preoccupanti perché si tratta del combustibile esaurito, ovvero la fonte di tutta la radioattività delle centrali nucleari: le sostanze a più lungo decadimento. Ne abbiamo mandati 6.000 metri cubi a Sellafield in Inghilterra e altre 235 tonnellate in Francia. Lì saranno “riprocessati”. Questi rifiuti torneranno a casa fra una decina di anni e ci vorrà un posto dove metterli. Se poi produrremo di nuovo energia nucleare, il deposito diventa ancora più necessario. Del resto, l’Italia, quando ha firmato l’accordo per mandare oltralpe il combustibile esaurito, si è impegnata con la Francia a costruire il deposito entro il 2020, ma dove? La prima cosa da fare è cercare di non ripetere gli errori del passato. E’ bene quindi ricordare la storia di Scanzano Jonico. Il 13 novembre del 2003, l’allora Governo Berlusconi individua nella cittadina della Basilicata il luogo dove costruire il deposito unico per le scorie radioattive di medio ed alto livello. Il sito per la costruzione di un deposito geologico profondo viene indicato dal consiglio dei Ministri dopo una valutazione del Servizio Geologico Nazionale. Lo stesso giorno il Sindaco di Scanzano dichiara di essere all’oscuro di tutto: nessuno ha avvertito la popolazione né i suoi rappresentanti che sarebbero arrivati 60.000 metri cubi di scorie tossiche. Dal giorno successivo parte la rivolta: in poche ore nascono associazioni di cittadini contrari alla costruzione del sito. A Scanzano manifestano gli ambientalisti, gli studenti, i commercianti, persino i sacerdoti. Il 23 novembre scendono in piazza più di 100.000 persone. Di fronte ad una presa di posizione così netta, il Governo deve fare marcia indietro. A fine novembre il nome di Scanzano viene cancellato dal decreto. Da allora Scanzano è diventato un monito: così non si fa. Innanzitutto si è capito che il deposito per ora è meglio non farlo geologico, ma di superficie: durerà meno, ma è più facile da costruire e gestire. Tutti gli esperti sono convinti che la scelta del luogo non si possa fare per decreto legge: ci vuole un percorso condiviso. Secondo alcuni bisogna pensare a forme di risarcimento, non solo soldi, ma prospettive di sviluppo. In Francia intorno al sito di La Manche sono sorti una città industriale ed un centro di eccellenza di settore. Il tavolo di concertazione promosso dall’ex-ministro Bersani tra Governo, Regioni, Ispra ed Enea aveva lo scopo di creare un percorso condiviso, ma al momento ancora non si è giunti ad una soluzione del problema: le Regioni sono ancora Una centrale nucleare scettiche.

Cristiana Pulcinelli
(da L’Unità, 14 luglio 200)

Rassegna Stampa 14/107/2009 I - Nucleare, Regioni in rivolta dal governo piano-militare


Il nucleare sarà pure a scopo civile, ma le nuove centrali saranno realizzate in siti militari. E del resto il governo non potrebbe fare altrimenti, visto che praticamente tutte le Regioni italiane hanno già fatto sapere che non intendono ospitare un reattore. Così, quattro giorni dopo che il Senato ha approvato definitivamente la legge che riapre al nucleare, da un lato il ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo si affretta a dire che «sono prematuri i tempi per ipotizzare i siti» dove verranno costruite le centrali, e «prematuri» rimarranno fino alle regionali del 2010, per evidenti motivi. Dall’altro, di fronte al niet di governatori sia di centrosinistra che di centrodestra, il governo sta lavorando per sottrarre i siti che verranno scelti al controllo non solo delle Autonomie locali, ma anche di Parlamento e magistratura.

IL NO DELLE REGIONI

Solo così il governo può riuscire a imporre la politica del ritorno al nucleare. Il ministro per lo Sviluppo economico Claudio Scajola sostiene che oggi molti enti locali sono pronti ad accogliere centrali sul loro territorio, ma chi siano questi fantomatici volontari è un mistero che dura da un bel po’ di tempo. Si sa invece che il governatore dell’Emilia-Romagna, Vasco Errani, che ricopre anche il ruolo di presidente della Conferenza delle regioni, critica duramente il governo perché «ha imboccato una strada sbagliata e procede in modo unilaterale». Posizione analoga per Mercedes Bresso, Piemonte: «Si tratta di un errore da ogni punto di vista, strategico, economico, della sicurezza». Due no che pesano doppiamente, visto che tra le ipotesi su cui sta ragionando il governo per risolvere in un colpo solo sia il problema delle autorizzazioni che quello dello smantellamento dei vecchi impianti, c’è quella di installare i nuovi reattori proprio nei siti delle centrali che dopo il referendum dell’ 87 sono state lasciate a girare a basso regime, a cominciare da Caorso (che si trova nella prima regione) e Trino Vercellese (seconda). Ma pesanti no arrivano anche dalla Toscana («contrarissimo» si dice Claudio Martini), dal Lazio («il futuro è nelle tecnologie pulite», sostiene Piero Marrazzo), dalla Basilicata («scelta inopinosa e avventurata» è per Vito De Filippo quella del governo), dalla Puglia («dovranno venire con i carri armati», promette Nichi Vendola). Tutte voci di centrosinistra e quindi a rischio passaggio di testimone nel 2010? Il fatto è che anche dal centrodestra stanno arrivando secchi rifiuti. Bisognerà vedere se alle parole seguiranno i fatti, ma intanto il presidente della Sardegna Ugo Cappellacci sostiene che «dovrebbero passare sul mio corpo» per installare un reattore sull’isola e quello dell’Abruzzo Gianni Chiodi fa notare che la sua terra non è «idonea per le sue caratteristiche morfologiche e sismiche a ospitare un sito».

SITI MILITARI

E allora si spiega perché il governo stia preparando una exit strategy ricorrendo all’aiuto dei militari. Ora che è diventato legge il ddl Sviluppo, contenente il ritorno al nucleare, può ripartire un altro disegno di legge che non casualmente finora è stato tenuto fermo in commissione Difesa al Senato. Si tratta di un provvedimento che prevede la creazione di una società di diritto pubblico denominata Difesa Servizi Spa. Il combinato disposto delle due norme consentirebbe la creazione di centrali in siti militari, visto che ora la Difesa può utilizzarli «con la finalità di installare impianti energetici destinati al miglioramento del quadro di approvvigionamento strategico dell’energia». E per farlo il ministero, una volta approvato il secondo ddl, «può stipulare accordi con imprese a partecipazione pubblica». Proprio come la Difesa Servizi Spa. A quel punto, le centrali nucleari sarebbero fuori dal controllo di altre autorità, protette dietro il cartello «Zona militare».

Simone Collini
(da L’Unità, 14 luglio 2009)

Rassegna Stampa 04/11/2009 - «Minacce, bombe e omertà. Mercato inquinato a Milano»


MILANO — Per la prima volta contestato a Milano alla stregua che a Platì o Corleone, il reato si chiama «illecita concorrenza e turbativa al mercato con minaccia o violenza». Ma le intercettazioni di Dia, Gico e carabinieri lo fanno capire molto meglio. Sei un imprenditore e stai decidendo a chi affidare il subappalto per gli scavi e il movimento terra nel tuo cantiere nella cintura sud dell’hinterland milanese, colonizzata decenni fa dalle famiglie storiche della ’ndrangheta al Nord. Io, che sono pure un imprenditore — volto ufficiale la società in via Montenapoleone, volto oscuro la compartecipazione in affari immobiliari con i rampolli di terza generazione delle cosche Barbaro e Papalia trapiantate a Buccinasco, Assago, Corsico, Cesano Boscone, Trezzano sul Naviglio — «ho due persone da presentarti. Anzi una non te la presento, per gli scavi ti faccio solo fare un preventivo da un ragazzo preciso. Un bravo ragazzo». Naturalmente «se sei d’accordo, senza alcun impegno». Per carità, sei libero di scegliere a chi dare il lavoro, in fondo anche quell’al¬tro fornitore «non è che non sia un bravo ragazzo». Ma sai com’è, «il mondo degli scavi è un mondo diverso, diverso», e a volte richiede «degli equilibri ». E’ vero che, con quell’al¬tro, risparmieresti 40mila euro sul lavoro: solo che «quello te lo può fare pure a gratis, ma come ci sono dei problemi, lui sicuramente non ti risolve un problema che posso risolverti io!» . E’ tutta questione di «problemi » possibili. Di che tipo, lo elencano 250 pagine di ordinanza per arrestare ieri 17 persone e sequestrare case e società per 5 milioni di euro: automezzi fatti saltare in aria, agenzie immobiliari bruciate, gente dubbiosa persuasa da colpi di pistola sparati alle finestre della camera da letto, un perito del Tribunale corrotto («il geometra la perizia la fa come glielo abbiamo detto di fare noi») per comprare a prezzo stracciato un prezioso terreno alle aste giudiziarie. E imprenditori mezzo terrorizzati e mezzo collusi con chi tra l’altro dava asilo a un latitante in fuga dall’Aspromonte; seppelliva detriti non nelle apposite discariche ma in un cantiere sulla linea ferroviaria Milano-Mortara; e in una Lancia Lybra nascosta in un box di Assago custodiva un arsenale di mitragliatori, pistole semiautomatiche, fucili, bombe a mano di fabbricazione jugoslava. E’ «di estremo allarme — scrive sconfortato il gip Giuseppe Gennari a proposito del materiale offertogli dai pm Boccassini, Dolci, Venditti e Storari— il fatto che, da anni, tra imprenditori milanesi si consideri un dato ineluttabile che determinati lavori in campo edile siano totalmente sottratti alle regole del mercato e della concorrenza » . Eccone uno che, ignaro di essere intercettato mentre si sfoga con un amico, inveisce contro quelli che «buttano bombe a destra e sinistra, gentaglia di m...», salvo poi, quando viene convocato dagli inquirenti, assicurare invece che sarebbero «persone con me sempre gentili e rispettose». Eccone un altro che, per paura, per un anno lascia ai genitori di un boss l’uso gratis di una casa, ma ai pm lo garantisce «una persona sicuramente affabile». Eccone ancora altri barcamenarsi: «Uno di quelli 'pesanti' mi ha detto: 'Quel signore lavora con voi', e io ho detto: no, non è corretto, lavora per noi».
Del resto, è a due passi dal Duomo che un imprenditore racconta che ci si rivolge al boss di zona come ormai forse nemmeno più succede nei vicoli di camorra: «In zona tutti si rivolgevano a lui per i più sva¬riati problemi: ad esempio a lui si chiedevano informazioni in caso di furto della macchina. Era la persona che nel momento del bisogno poteva darti un mano a risolvere i problemi». Il pm Boccassini annuncia «una linea di durezza verso gli imprenditori border line: l'im¬prenditoria sana deve capire che bisogna stare con lo Stato, non contro, e che non può ac¬cettare le violenze mafiose per propri tornaconti». Ma intanto il gip scatta solo tre tipi di foto d’azienda: «Vi è chi decide sem¬plicemente di autoesiliarsi per non incontrare la strada dei 'ca¬labresi' » e va a lavorare altrove, anche a costo di affrontare «costi maggiori del 10%. Vi è chi accetta le regole del gioco evitando fastidi e problemi. E vi è chi va anche oltre, intessendo rapporti che esorbitano l’ordinaria commessa lavorativa. Se poi qualcuno dimentica le regole, il fuoco appiccato o l’ordigno esplosivo sono un buon metodo per richiamare la memoria » . Solo quando indispensabile, s’intende. Perché il boss di turno è sempre pronto a portare la 'sua' pace. «Speriamo che qua tutta questa situazione la risolviate consiglia ad esem¬pio a chi sta litigando troppo per un debito —. Vedete come la potete passare, come la potete risolvere, sennò...ve lo giuro, sennò a me mi dispiace».

Alberto Berticelli
Luigi Ferrarella
(da CorriereCronache = http://www.corriere.it/cronache/09_novembre_04/minacce-bombe-omerta-mercato-milano_d1ee5b0c-c910-11de-a52f-00144f02aabc.shtm, 04 novembre 2009)

Rassegna Stampa 17/03/2009 - In Lombardia il ponte di comando della 'ndrangheta


La nuova forma dello Stato è materia di polemiche politiche ma, in compenso, il federalismo criminale è già realtà. E la capitale scelta è Milano. Il giorno in cui la Direzione distrettuale antimafia del capoluogo arresta 20 presunti appartenenti a due cosche che in Calabria si fanno la guerra ma in Lombardia fanno la pace in nome di affari milionari, la relazione della Dna – chiusa nel cassetto del Procuratore nazionale antimafia Piero Grasso – rivela che la 'ndrangheta si sta ormai impossessando della regione.
Intere parti della Lombardia – come Buccinasco, dove decine di imprese edili sono in odore di mafia – sono ostaggio degli appetiti delle 'ndrine ma quel che sorprende nel documento consegnato a Grasso dal sostituto procuratore antimafia Vincenzo Macrì è scoprire l'asse sempre più stretto tra Milano e Brescia, dove le cosche procacciano affari anche grazie all'ingresso della mafia russa. La relazione della Dna mette a nudo una realtà che – in vista di Expo 2015 – va affrontata con realismo e fermezza: il baricentro delle decisioni strategiche non è più San Luca ma Milano dove la 'ndrangheta, ormai, è di terza generazione.
Se la politica cerca di riempire di contenuti il federalismo, la 'ndrangheta lo ha già fatto. Ha deciso che Milano è la nuova capitale dell'Italia criminale federata e in vista di Expo 2015 ha anche scelto di rinforzare l'asse con una città ponte verso i ricchi traffici, italiani ed europei, del Nord-Est: Brescia. Come sempre, le cosche sono avanti, più avanti di chi dovrebbe sconfiggerle. E anche gli arresti e i sequestri milionari di ieri a Milano dimostrano che la Lombardia è ormai terreno di conquista per le cosche.
A metterlo nero su bianco è Vincenzo Macrì, sostituto procuratore nazionale antimafia. «Non ci sono più tanti satelliti che ruotano intorno a un unico sole, la 'ndrangheta di San Luca - scrive nella sua relazione consegnata poco più di un mese fa al suo capo, Piero Grasso -, ma una struttura federata, disposta a dialogare con la vecchia casa-madre, ma non più a dipendere da essa, sia quanto alla nomina dei responsabili della periferia dell'Impero, sia quanto all'adozione delle nuove strategie e alla condivisione dei profitti».
Eccolo il motivo per il quale quest'anno - per la prima volta - la Dna, Direzione nazionale antimafia, ha deciso di secretare l'intera relazione. Quasi 900 pagine chiuse a chiave in pochi cassetti e accompagnate da una lettera del procuratore capo, Grasso, con divieto di divulgazione agli uffici.
Grasso, quest'anno, non poteva permettere che la relazione - a partire dalle dense e sorprendenti considerazioni sulla 'ndrangheta - uscisse fuori dai confini di chi - ogni giorno - è in prima linea a combattere la criminalità. Grasso non poteva tollerare la diffusione delle pagine dedicate alla 'ndrangheta che con il suo fatturato annuo di 44 miliardi (stime Eurispes) è ormai l'organizzazione criminale più forte al mondo. Forte dell'asse con i narcos colombiani. Una 'ndrangheta talmente pervasiva che non c'è pagina - nei contributi consegnati dalle 26 Direzioni distrettuali alla Direzione nazionale - che non trasudi di investimenti, prestanomi, traffici e corruzioni a opera di esponenti delle cosche calabresi o ad essi vicini. Una 'ndrangheta che compra tutto e, quando non può, delegittima, calunnia e isola. E uccide.
Il Sole 24 Ore ha la relazione ma, per non ostacolare le indagini, si astiene dal pubblicarne stralci e si limita a fornire il quadro d'insieme divulgando alcuni passi utili a comprendere il fenomeno, privi di qualunque dato coperto dal segreto. A pagina 117 si legge testualmente che «si è alla vigilia di una vera e propria rivoluzione copernicana... La 'ndrangheta avrà in tal modo completato il suo lungo percorso di occupazione della più ricca e produttiva regione del Paese: la Lombardia».
E non sarà un'occupazione precaria, ma definitiva, con strutture permanenti di direzione, con il territorio rigidamente suddiviso. «In pratica - secondo la relazione, anch'essa secretata ma acquisita agli atti, della Direzione distrettuale di Milano -, corpi separati ma provenienti dal medesimo ceppo e viventi nell'ambito di quella che può definirsi una coesistenza autonoma ma interattiva».

Nel giro di pochi anni - se le indagini dovessero confermare il quadro della Dna, ma appare scontato - i rapporti di forza si ribalterebbero: i centri decisionali si sposteranno sempre di più dalla Calabria alla Lombardia. Non è un caso che i boss Paolo Sergi e Antonio Piromalli siano stati recentemente arrestati a Milano, da dove - secondo gli investigatori e gli inquirenti - dirigevano i traffici internazionali di droga e curavano i collegamenti con il mondo politico e delle istituzioni.

Ma se la situazione di Milano e dell'hinterland - come ad esempio Buccinasco, che nella relazione di Macrì viene descritto come un territorio sottoposto passivamente alla conquista delle cosche fin dagli anni 70 - quel che sorprende è scoprire che Brescia e la sua provincia siano entrate ormai a pieno titolo nelle maglie della 'ndrangheta. Le cosche «condizionavano e condizionano il tessuto sociale e le iniziative d'intrapresa finanziaria», scrive Macrì. Un assalto in piena regola, agevolato dalla complicità delle mafie straniere, in primo luogo di quella russa. «In particolare - si legge nel contributo messo a disposizione della Direzione distrettuale di Brescia - i calabresi appaiono svolgere il ruolo di procacciatori d'affari per i soggetti stranieri e in tale contesto si è rivelato persino l'interessamento per l'acquisto di una raffineria».
L'allarme della Direzione nazionale antimafia non prescinde da Expo 2015, sulla quale Stato ed enti locali non trovano accordi: la 'ndrangheta si è già piazzata con omicidi (tre in pochi mesi) e spartizioni già decise o in via di definizione. Accordi che lasceranno briciole (sostanziose) anche a Cosa Nostra e Camorra, ormai costrette a venire a patti con chi è più forte di loro. «Gli interessi in gioco con Expo 2015 - si legge nella relazione - sono maggiori persino di quelli ipotizzabili dalla realizzazione del Ponte sullo Stretto di Messina».
Di fronte a questa prospettiva, lo Stato prova ad attrezzarsi al meglio e il Comune di Milano tenta di conciliare le esigenze di chi vorrebbe istituire una Commissione municipale sul fenomeno mafioso con quelle di chi - forte anche del parere negativo del prefetto del capoluogo Gian Valerio Lombardi - ne farebbe volentieri a meno.
Commissione sì o commissione no, ciò che conta è che la politica prenda consapevolezza del fatto che Milano e la Lombardia non sono più solo le capitali morali, produttive e finanziarie del Paese, ma sono anche i capisaldi intorno ai quali la narcofinanza calabrese ha deciso di far girare tutti i traffici e le vie del riciclaggio del denaro sporco. Gli arresti di ieri - per chi avesse ancora dubbi - sono lì a ricordarlo.

Roberto Galullo
(da http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Italia/2009/03/ndrangheta-ponte-comando-lombardia_2.shtm, 17 marzo 2009)

martedì 26 gennaio 2010

Rassegna Stampa 26/01/2010 II - Allo Stato la tutela delle acque e alla Regione la competenza nel loro utilizzo



LIVORNO. Il riparto delle competenze fra Stato e Regione in materia di acque dipende dalla distinzione fra uso e tutela del bene: all'ente locale spetta quella dell'utilizzazione, allo Stato quella della tutela.
Lo afferma la Corte Costituzionale che con sentenza di questo mese dichiara illegittima la legge regionale della Campania nella parte in cui fissa la durata della concessione a 50 anni e non in 30. Una dilatazione temporale che, fra l'altro urta con la necessità in sede di rinnovo della concessione della procedere di Valutazione d'impatto ambientale (Via).
La vicenda ha inizio quando il Presidente del Consiglio dei ministri ha proposto questione di legittimità costituzionale, della legge della Regione Campania (la n. 8 del 2008) relativa alla disciplina della ricerca e utilizzazione delle acque minerali e termali, delle risorse geotermiche e delle acque di sorgente. E in particolare nella parte in cui esclude la valutazione d'impatto ambientale o valutazione di incidenza per i rinnovi delle concessioni "in attività da almeno cinque anni dall'entrata in vigore della stessa legge regionale". Perché contraria non solo alla competenza esclusiva attribuita allo Stato dalla Costituzione (così come riformata nel 2001) in materia di tutela ambientale (art. 117 primo e secondo comma lettera s)), ma anche alle disposizioni in materia del Dlgs 152 /06.

La legge regionale impedirebbe la verifica della "permanenza della compatibilità [...] con i mutamenti delle condizioni territoriali e ambientali eventualmente sopravvenuti" anche in ipotesi di rinnovo della concessione "correlata a opere a suo tempo già sottoposte alla procedura di valutazione d'impatto ambientale". E contrasterebbe con i principi della disciplina "che sottopone a regolazione dell'Autorità concedente finalizzata a garantire il minore deflusso vitale nei corpi idrici di tutte le concessioni di derivazione di acque pubbliche".

La legge regionale campana prevede infatti che "le concessioni perpetue date senza limite di tempo, in base alle leggi vigenti anteriormente all'entrata in vigore del regio decreto n. 1443/1927, sono prorogate per cinquanta anni dall'entrata in vigore della presente legge, e le relative subconcessioni per venti anni, salvo che rispettivamente il concessionario o il subconcessionario non siano incorsi in motivi di decadenza".
L'ordinamento italiano, per lungo tempo, si è occupato soltanto dell'aspetto dell'uso e della fruizione delle acque minerali naturali e termali trascurando quello relativo alla tutela.
Il testo unico delle leggi sulle acque e sugli impianti elettrici si occupava di concessioni di piccole e grandi derivazioni, ma non di tutela dell'acqua. In questo contesto si inseriva la disposizione dell'art. 117 Cost., nel vecchio testo (ossia quello anteriore alla modifica costituzionale del Titolo V della parte seconda) che attribuiva la competenza in materia di Acque minerali e termali alle Regioni.
Con il Dlgs 152/06 il legislatore ha provveduto alla tutela delle acque facendo rientrare tutte le acque superficiali e sotterranee - ancorché non estratte dal sottosuolo - nel demanio dello Stato. Precisando pure che "le acque termali, minerali e per uso geotermico sono disciplinate da norme specifiche, nel rispetto del riparto delle competenze costituzionalmente determinato".
Il riparto delle competenze, è agevole dedurlo, dipende proprio dalla distinzione tra uso delle acque minerali e termali, di competenza regionale residuale, e tutela ambientale delle stesse acque, che è di competenza esclusiva statale, ai sensi del vigente art. 117, comma secondo, lettera s), della Costituzione.
Fra l'altro di tale tutela ne dà conferma lo stesso Dlgs 152/06. Perché dispone che le concessioni di acque minerali e termali ossia i provvedimenti amministrativi che riguardano la loro utilizzazione, devono osservare i limiti di tutela ambientale posti dal Piano di tutela delle acque, in modo che non sia pregiudicato il patrimonio idrico e sia assicurato l'equilibrio del bilancio idrico.
Quindi, il principio di temporaneità delle concessioni di derivazione e la fissazione del loro limite massimo ordinario di durata in trenta anni (salvo specifiche ed espresse eccezioni), senza alcuna proroga per le concessioni perpetue in atto, rappresentano livelli adeguati e non riducibili di tutela ambientale. Livelli individuati dal legislatore statale che fungono da limite alla legislazione regionale.

(da http://www.greenreport.it/_new/index.php?page=default&id=3026, 25 gennaio 2010)

Rassegna Stampa 26/01/2010 I - Rifiuti e liquami, è on-line la mappa delle criticità


Eternit, materiale combusto, automobili abbandonate sulle sponde degli alvei, elettrodomestici, ferro, acciaio, carcasse di animali, pneumatici, indumenti. Sono tante le storie di degrado raccontate dalla mappa interattiva che Arpac rende disponibile on-line, con la ricognizione di scarichi e sversatoi nell’area dei Regi Lagni. Sono più di trecento le segnalazioni inviate dalle squadre di Arpac Multiservizi che hanno setacciato il terreno intorno ai canali borbonici. Si tratta di rifiuti urbani o speciali abbandonati sul terreno, oppure di scarichi che convogliano liquami all’interno degli alvei. Terminata la fase "in campo" tutti i dati vengono raccolti in un database e resi disponibili su internet, dove chiunque può consultarli grazie a un’interfaccia elaborata dai tecnici Arpac.

Nel database, che verrà completato nelle prossime settimane, è stato già inserito circa il 50% dei dati raccolti in campo. Il reticolo dei Regi Lagni è individuato dalle linee di colore blu, sullo sfondo fornito dalle mappe satellitari di Google. I tratti contrassegnati in rosso indicano le parti non controllabili poiché interrate o non accessibili. Zoomando sulle aree dove transitano gli alvei, appaiono segnaposto contrassegnati da “R” (per i rifiuti) e da “S” (per gli scarichi). Quando si clicca su un segnaposto, compare una scheda relativa alla “scoperta” fatta dalle squadre sul campo. Ogni scheda comprende una o più foto, con la data e l’ora in cui sono state scattate, la località, e una descrizione del materiale o delle condutture individuate.

(da La Rete Civica di Napoli, 7 Dicembre 2009)

lunedì 25 gennaio 2010

Rassegna Stampa 25/01/2010 II - Quanta Italia sotto l'amianto


Al microscopio è dolce, sembra un batuffolo di cotone, una nuvola del cielo. Nei polmoni è micidiale, uccide. È l’amianto. Ha ammazzato più operai italiani di qualsiasi altra causa. Perché è stato legale fino al 1992, confuso per 50 anni con il destino cinico e baro. Non si voleva e non si doveva sapere, perché d’amianto erano fatti tetti e macchinari delle maggiori aziende, e il killer viaggiava sui i treni. Poi - stanchi di ritrovarsi in processione ai funerali - gli operai hanno preso coscienza. La medicina del lavoro si è dedicata. Il Parlamento arrivò alla legge che riconosceva il dramma di rinterzo, introducendo i benefici previdenziali: un anno di esposizione all’amianto valeva 1,5 ai fini della pensione. Bisognava però essere stati esposti per almeno dieci anni e serviva un “curriculum” certificato dall’azienda. Difficile, se è il mandante che deve riconoscere l’omicidio: in pochi ne hanno giovato. Poi è arrivato il governo Berlusconi, con Tremonti a caccia di quattrini, come sempre: nel 2003 la legge è stata complicata, il benificio è stato ridotto a 1,25 per ogni annodi lavoro e sono stati inseriti parametri di esposizione ardui da dimostrare, a distanza di anni. Si sa, per risparmiare è meglio un operaio morto che un lavoratore in pensione. Il governo successivo di centrosinistra rimodulò quei tempi e soprattutto - visti anche i primi processi che interessavano vari stabilimenti in tutta la penisola - stanziò nella Finanziaria del 2007 un fondo di 30 milioni per risarcire le vittime. Solo che serviva un decreto attuativo entro novanta giorni per sbloccare quei soldi. Il governo Prodi si attardò e morì per consunzione di lì a poco, i successori (sempre i soliti, Berlusconi, Tremonti...) se ne dimenticarono. “Ballavano” anche le bonifiche di capannoni e terreni.
Ci sono ancora 30 milioni di tonnellate di amianto, in giro per l’Italia e 2,5 miliardi di metri quadrati di coperture, sopra le teste di qualcuno: lo scrive il Cnr. Di mesotelioma muoiono ogni anno 3 mila persone.
Una morte a piccoli sorsi, l’amianto lavora per anni, rimanda l’appuntamento, ma arriva sempre.

Marco Bucciantini
(da L’Unità, 25 gennaio 2010)

Rassegna Stampa 25/01/2010 I - Morire d'amianto sulle dolci colline dell’Oltrepò pavese


Alla fine il sindaco allarga le braccia, sotto la bandiera tricolore: «Ho visto famiglie sterminate, andavo a pulire la tomba di mio fratello pensando che fosse polvere di cemento e invece era amianto, magari domani mi ammalo pure io... cosa possiamo dire ancora?». Già, cosa si può aggiungere, come si può spiegare e capire la storia di una fabbrica, come la Fibronit, che accompagna per un secolo la vita quotidiana di una tranquilla comunità della bella provincia italiana, alimentandone il reddito e le speranze, per poi scoprire che oltre quel recinto, dentro quei reparti, si nascondevano la malattia e la morte. Luigi Paroni, sessantenne, è il primo cittadino di Broni, comune di quasi diecimila abitanti che s’incontra appena passato il Po, oltre lo storico ponte della Becca. L’aria è padana, non come la intende la stupidità leghista, ma perché la cultura e la storia hanno radici profonde nel lavoro, nella tradizione, nella democrazia della gente. Questa terra è stata cantata da Gianni Brera e Alberto Arbasino, qui nasce il Barbacarlo, formidabile vino rosso. Da ragazzi, quando avevamo due lire, scappavamo da Milano e portavamo la morosa nelle trattorie su queste colline facendo un figurone. Il cimitero ci ricorda che qui è nato ed è sepolto un italiano perbene: Paolo Baffi, indimenticato governatore della Banca d’Italia. Broni nasconde, purtroppo, una tragedia immane, una strage silenziosa e dimenticata che si alimentagiorno dopo giorno. Potrebbe essere paragonata al dramma dell’Eternit. Anche qui l’amianto è stato per decenni una presenza inquietante ma tollerata, uccideva ma nessuno sapeva nulla o magari si stava zitti perchè il profitto per il padrone e uno stipendio per l’operaio mettevano tutto a tacere. C’è stata questa stagione, un lungo periodo di industrializzazione senza regole e senza limiti per il boom economico. La ex Cementifera Italiana Fibronit produceva cemento già nel 1919, poi nel 1932 iniziò la lavorazione dell’amianto, continuata fino al 1993 quando, finalmente, una legge nazionale impose la cessazione per la sua pericolosità. Ma il danno ormai era stato fatto. «Si può affermare che tra i dipendenti degli ultimi venti, venticinque anni di attività della fabbrica circa 600-700 siano morti per le conseguenze dell’esposizione all’amianto, per il periodo precedente è difficile fare stime» osserva Costanza Pace, geologa, vicepresidente dell’Associazione italiana esposti all’amianto di Broni, «noi chiediamo due cose: il risarcimento per le famiglie delle vittime degli operai e degli altri cittadini colpiti, la bonifica dell’area dell’ex Fibronit». A sedici anni dalla chiusura dello stabilimento la minaccia dell’amianto si insinua ancora nella vita dei cittadini. Il mesotelioma pleurico (il cancro ai polmoni) ha un periodo di incubazione lunghissimo, venti trent’anni, anche di più in alcuni casi. L’apice, il punto più pericoloso per Broni e i comuni circostanti, è atteso dopo il 2015. Intanto si possono considerare i numeri e i fatti di oggi. L’Asl ha accertato negli ultimi tre anni cento nuovi casi di mesotelioma all’anno nella zona.
La provincia di Pavia detiene il triste record in Lombardia e in Italia per i casi di mesotelioma e il contributo decisivo a questo primato arriva proprio da Broni.
Le conclusioni del 2006 di un’indagine commissionata dall’Asl al Dipartimento di Medicina preventiva dell’Università di Pavia relativa agli anni 1994-2003 hanno rilevato che l’incidenza del mesotelioma tra i residenti del comune di Broni era 25 volte superiore rispetto all’atteso a causa delle emissioni di polvere durante il periodo di attività della Fibronit. Sono stati e sono colpiti sia ex operai, sia comuni cittadini. Muoiono le mogli che lavavano le tute dei mariti intrise di polvere d’amianto. Sono morti alcuni cittadini di un’area sotto vento, dove venivano portate le polveri. È morto anche un ex postino che per anni aveva consegnato le lettere all’ingresso della Fibronit. Parlare di giustizia in queste tragedie è difficile. Ma qualcosa finalmente si è mosso, anche tra la popolazione, prima rassegnata e ora più decisa, grazie al lavoro di Legambiente e della Cgil. La Procura di Voghera ha chiuso l’inchiesta per i morti della Fibronit. Le denunce e gli esposti di anni hanno portato a un primo risultato: ci sono dieci indagati tra ex amministratori e dirigenti dell’azienda, anche se non c’è più nessuno degli ex proprietari originari, la famiglia Milanese di Casale Monferrato. I cespiti aziendali residui sono in curatela fallimentare. Le accuse sono pesanti: disastro colposo, rimozione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro e omicidio colposo plurimo. L’indagine del sostituto procuratore Maria Gravina è stata un’opera gigantesca, gli atti depositati a disposizione delle parti sono costituiti da ben 80mila pagine. Il sindaco Paroni spera «in un processo che avrebbe un grande valore morale per tutti», e vorrebbe «poter contare su tutti i finanziamenti necessari alla bonifica il cui piano doveva finire nel 2014,masiamo già un anno in ritardo». La campagna elettorale per le regionali potrebbe smuovere qualche cosa, anche se Formigoni è molto impegnato nelle inaugurazioni. La chiusura della fabbrica e l’amianto hanno avuto un brutto effetto: è diminuita la popolazione, l’economia ne ha risentito. Oggi ci sono solo cinque aziende con più di 30 addetti ciascuna. C’è un po’ di artigianato, il piccolo commercio, l’agricoltura legata al vino. Il sindaco vorrebbe attrarre qualche investimento, rilanciare il teatro, creareunpolo culturale multifunzionale... Broni meriterebbe una nuova stagione. Ma i conti col passato bisogna farli. E gli ex operai malati in giro con la bombola ad ossigeno sono la testimonianza visibile che un po’ di giustizia ci vuole, anche nell’epoca dei fanatici del processo breve. Ottavio Guarnaschelli, 60 anni, si considera fortunato: «Quelli che lavoravano con me sono quasi tutti morti, io mi faccio visitare ogni tre mesi sperando di evitare guai. Certo se penso agli anni che abbiamo lavorato avvolti dalla polvere di amianto mi chiedo se non si poteva fare qualche cosa prima per evitare tutti questi malati, questi morti».Male battaglie non finiscono mai, anche quando le fabbriche sono chiuse. Bruno Salvatore, ex dipendente Fibronit, è originario di Cosenza, vive qui dal 1952. Ha bisogno dell’ossigeno. Si lamenta: «Mi vogliono togliere l’assegno per le malattie professionali, mi hanno scritto che si sono sbagliati nel 1983 e io cosa faccio? Anni fa avevo denunciato la Fibronit, a Casale Monferrato, non è mai successo nulla». L’ultimo incontro è con la memoria storica di Broni. Guido Varesi, classe 1912, porta con eleganza il tabarro. Va tutti i giorni al circolo per incontrare gli amici e bere un calice. Ha 98 anni, si considera un sopravvissuto e parla con dolcezza, come solo i vecchi sanno fare. «Io sono una disgrazia per l’Inps: sono sopravvissuto a due guerre mondiali, ho fatto il partigiano, ho lavorato 38 anni alla Fibronit e sono ancora vivo e vegeto. Mia moglie non ce l’ha fatta, lavorava al piano di sopra nel reparto delle donne. I miei compagni non ci sono più e adesso c’è gente che si ammala ancora, chissà come sarà il futuro...».

Rinaldo Gianola
(da L’Unità, 25 gennaio 2010)

domenica 24 gennaio 2010

Rassegna Stampa - Navi di veleni: ecomafie di Stati e multinazionali del crimine


Come si fa a smaltire un carico di rifiuti tossici e magari radioattivi? Elementare Watson: basta stivarlo su una nave in pessime condizioni e poi venderlo a qualche signore della guerra che in cambio chiede solo una buona partita di armi. Oppure comprare una carretta e affondarla insieme ai veleni. Dunque, si acquista un mercantile, si imbottisce di rifiuti pericolosi dichiarando un carico di materiale innocuo e, infine, si inabissa il natante o almeno si tenta; male che vada il relitto viene abbandonato alla deriva. Soltanto negli ultimi 25 anni sono state affondate misteriosamente circa una sessantina di navi nei mari a ridosso della penisola italiana (in particolare Tirreno, Jonio e Adriatico); ma la stima è errata per difetto, anche se soltanto i Lloyd’s di Londra ne certificano 40. Si tratta di imbarcazioni in condizioni disastrose da far sparire sia per truffare le compagnie assicurative sia per smaltire illecitamente sostanze pericolose. Parecchie di queste navi sono state utilizzate prima dell’inabissamento, sia per portare rifiuti verso paesi del Terzo mondo sia per il traffico di armi. La concomitanza fra lo smaltimento illecito di rifiuti e il traffico di armi appare ormai come un dato fondante e svela lo scenario di un doppio coinvolgimento della mafia, ma soprattutto di governi, multinazionali e faccendieri in particolare dei nostri servizi segreti (ex Sismi e Sisde). Ecco un esempio a portata di binocolo. Un ras bellico di un paese africano (ad esempio la Somalia) ha bisogno di molto denaro per comprare armi e munizioni per equipaggiare le proprie milizie; per questa ragione viene contattato dai trafficanti, sovente in alta uniforme. In cambio della possibilità di scaricare in mare davanti alla costa o sulla terra ferma nel territorio controllato da questi, verranno forniti denaro, in parte, e direttamente armamenti. Un “prenditore” del ramo raccoglie rifiuti e scorie in qualche paese industrializzato dell’Occidente, offrendo tariffe per lo smaltimento (a buon mercato) molto più basse dell’usuale. Questi materiali, spesso dichiarati come inerti o come rifiuti non pericolosi, vengono stoccati in qualche deposito temporaneo ben collegato con qualche porto (prevalentemente La Spezia, Civitavecchia, Trieste, Ortona, Manfredonia, Brindisi, Taranto, Crotone, Gioia Tauro). Si acquista una nave, meglio in pessime condizioni e si assoldano un comandante spregiudicato e un equipaggio alla fame. Nel frattempo un altro manager tratta con qualche signore della guerra, il prezzo del terreno o del tratto di mare dove scaricare i rifiuti. Ad accordo concluso, la nave raggiunge il porto di partenza, viene caricata e si allontana rapidamente. Prima di raggiungere la destinazione finale fa una breve sosta: carica le armi che, al confronto dei rifiuti, sono molto meno voluminose. Raggiunta la costa del paese di destinazione finale, iniziano gli scarichi a mare, mentre emissari del leader locale salgono a bordo per ritirare armi e denaro. L’Italia è il porto finale europeo per navi sbarcate in Libano, Nigeria, Venezuela, Somalia, Romania. Fino a non molto tempo fa era prassi usuale di tutti i paesi nuclearizzati, Italia compresa, smaltire direttamente in mare i rifiuti nucleari. Con la firma del trattato internazionale London Dumping Convention del 1972 e del successivo (1976) Barcellona Dumping Protocol, che vietano lo smaltimento in mare di rifiuti in particolare di origine radioattiva, il problema delle scorie atomiche viene aggirato con i traffici illegali. A questo quadro di illegalità bisogna aggiungere un altro dato. La comunità europea in seguito alla Convenzione di Londra non può più eliminare parte delle sue scorie in mare. Questo impedimento sembra del tutto inaccettabile per i nuclearisti europei e per gli industriali senza scrupoli che pur di non sborsare i corretti oneri di smaltimento si sbarazzano dei propri residui dove capita. Ergo: si aggira l’ostacolo con il finanziamento di uno studio di smaltimento, sotto fondali marini argillosi precedentemente individuati, attraverso contenitori speciali detti penetratori. Una sorta di siluri sganciati da navi attrezzate in modo speciale dette Ro Ro e successivamente controllati via satellite. Lo studio, finanziato per 120 milioni di dollari sia dalla Cee che da altri paesi come Usa, Svizzera e Giappone, viene terminato, ma non si passa mai, almeno ufficialmente, alla fase esecutiva. Nel 1986 scoppia il caso Chernobyl. E si fanno due valutazioni, una politica e una strategica: se si attua il progetto dei penetratori si rischia una sollevazione dell’opinione pubblica e in ogni caso un deposito sottomarino è difficilmente sorvegliabile. Il progetto dei siluri di scorie sembra essere definitivamente abbandonato: poi, invece, ricompare improvvisamente in modo del tutto imprevedibile. Febbraio 1995. Il Corpo forestale di Brescia (un nucleo di investigatori altamente qualificato, inspiegabilmente sciolto per disposizioni superiori) ferma tal Ripamonti che si stava recando in Svizzera per incontrare a Lugano l’avvocato Forni. Ripamonti è un emissario di Giorgio Comerio. Questo ingegnere – gli inquirenti hanno scovato nella sua dimora il certificato di morte di Ilaria Alpi – è il factotum e principale artefice del progetto dei penetratori per la Odm, società che sostiene di aver ingegnerizzato il progetto dei penetratori lanciato dalla Cee nel 1989. La proposta di Comerio aveva come fine la realizzazione di enormi contenitori cilindrici, i penetratori, nei quali stivare altri 40 contenitori più piccoli pieni di scorie nucleari. L’avvocato Forni avrebbe dovuto fare da intermediario con il governo elvetico, mentre un altro personaggio di nome Convalexius, avrebbe dovuto svolgere lo stesso ruolo con il governo austriaco. L’Odm propaganda anche su Internet il suo progetto di smaltimento di rifiuti in mare, siano questi radioattivi o tossici. La società prospera: negli anni apre nuove sedi oltre a quella principale di Lugano risulta avere una rappresentanza a Mosca, il controllo di società in Lussemburgo e Lettonia, rapporti commerciali con Russia, Ucraina, Bulgaria, Romania, Adzerbaijan, Turkmenistan, Crimea, Kirgyzistan, Sudafrica, Gambia, Sierra Leone. Si apprende dai documenti di una commissione parlamentare di inchiesta sui rifiuti che Comerio avrebbe avviato contatti con i leader somali per l’utilizzazione dei penetratori nella parte di fondale davanti alla costa nord-occidentale della Somalia nei pressi di Bosaso. La stessa Odm asserisce di intrattenere relazioni con oltre 50 paesi e non specificate “Nuclear national authority”. La società ha individuato almeno 100 siti di inabissamento fra i quali sono state selezionate 30 zone ottimali. Tra queste è indicata proprio l’area somala già citata. La commissione presieduta da Massimo Scalia riporta come segnalazione accreditata dalle denunce di Unicef, Oms, Organizzazione marittima internazionale e Greenpeace, un’attività di trivellazione e di successivo inabissamento di containers in mare proprio nei pressi di Bosaso. Nella relazione conclusiva della Commissione si legge: “Peraltro la Commissione ritiene doveroso segnalare un’altra coincidenza: proprio nell’area in questione, e in particolare a Bosaso, ha svolto i suoi ultimi servizi televisivi prima di essere uccisa (a Mogadiscio il 20 marzo 1994, ndr) la giornalista della Rai Ilaria Alpi, impegnata, secondo quanto emerso finora, in un’inchiesta giornalistica relativa a presunti traffici di armi”. Quanto a Comerio è inserito a pieno titolo nelle indagini sugli affondamenti delle navi nel Mediterraneo. Su una sua agenda, alla data dell’affondamento della “Rigel”, è scritto “la nave è affondata”. Una coincidenza? A bordo della “Rosso” vengono trovati dei documenti e delle mappe. Copia delle stesse vengono trovate da Comerio. Vi sono segnalati alcuni punti e due di questi corrisponderebbero agli affondamenti di altre due navi, la “Anni” e la “Euroriver”. Un’altra coincidenza? La Odm in un modo o nell’altro figura in numerose inchieste sui traffici, in particolare internazionali, di rifiuti radioattivi. Comerio poi viene arrestato su ordine della magistratura di Bolzano, per tutt’altra vicenda. La notizia è dell’ottobre 1996: si tratta di una mazzetta di trenta milioni di lire per una perizia aggiustata su alcuni lavori eseguiti sulle nuove linee ferroviarie dell’alta velocità. Da quanto si apprende dal lancio Ansa che segnalava il caso, Comerio è stato arrestato mentre ritirava la tangente dalle mani di un imprenditore che stava collaborando con gli inquirenti. Ma torniamo alle navi affondate nello Jonio e nel canale di Sicilia. Per alcuni le indagini sono state condotte in un clima di forte tensione. La morte improvvisa e misteriosa del capitano di corvetta Natale de Grazia nel ’95, uno degli investigatori di punta che collaborava con i magistrati di Reggio Calabria, in particolare Francesco Neri e Nicola Maria Pace a Matera, si è andato a sommare ai numerosi casi di intimidazione denunciati negli anni. Uno dei più gravi problemi che la magistratura ha dovuto affrontare è stata la scarsità dei mezzi necessari per poter effettuare ricerche, rilievi e analisi per accertare la verità sugli affondamenti. Il calendario segna il primo marzo 1994, quando dal porto di Durazzo salpa la motonave “Korabi Durres” battente bandiera albanese. I documenti di carico indicano un trasporto di rottami di rame. La nave si dirige verso le coste italiane, sfiorando il litorale pugliese. Il 2 marzo raggiunge l’area dell’antiporto di Crotone; il giorno seguente la locale capitaneria portuale, sospettando la presenza di immigrati clandestini, sale a bordo per un’ispezione; nella stiva, però, si trovano soltanto rottami metallici gettati alla rinfusa: 1.200 tonnellate di carico. Il 4 marzo la “Korabi” giunge a Palermo, nuova ispezione al largo con rilievi più approfonditi fra i quali alcuni specifici per verificare la presenza di eventuali tracce di radioattività. Che vengono puntualmente riscontrate. Alla nave sono negati l’accesso al porto e il permesso per scaricare il carico a terra. Il 9 marzo alle ore 11,30 la “Korabi” lascia la rada portuale di Palermo diretta a Durazzo. Il 10 naviga nelle acque di Pentimele vicino a Reggio Calabria e le autorità marittime effettuano una nuova ispezione, ma questa volta, al contrario di quanto riscontrato in Sicilia, non viene rilevata alcuna traccia di radioattività. Scattano indagini giudiziarie per scoprire se la “Korabi” ha scaricato in mare parte del carico, ma nel frattempo la nave si è allontanata e se ne perdono le tracce, nonostante la presenza di una flotta Nato per l’embargo alla Jugoslavia. Ricompare più di un anno dopo a Pescara, il 20 aprile ’95, dove viene sequestrata e nuovamente controllata a fondo. Il capitano, Curri Hysen Hajri, viene trattenuto in arresto. Effettuati tutti i controlli, non vengono trovati picchi di radioattività a bordo e la nave, dissequestrata riprende il largo. Che fine ha fatto il carico che il 4 marzo 1994 risultava contaminato? Aprile 1994. Al largo delle coste della Campania, davanti a Salerno, si segnala la presenza di radioattività da torio 234, primo prodotto del decadimento dell’uranio 238, su campioni di alghe e materiale ferroso prelevati a seguito del rinvenimento in mare di alcuni container persi nel naufragio della nave “Marco Polo”. La nave si era inabissata nel maggio del 1993 all’altezza del canale di Sicilia. Le analisi relative a uno di questi containers superano di 5 volte i valori “normali”. L’affondamento della “Marco Polo”, sul quale è stato aperto un procedimento della Procura di Reggio Calabria ha diverse analogie con un altro affondamento avvenuto nelle acque di Ustica, quello della “Koraline”. Anche in questo caso, a seguito del rinvenimento di alcuni container, è stata segnalata la presenza, in concentrazioni anomale, di torio 234. Altra nave altra storia. Nel dicembre 1990 al largo di Vibo Valentia la “Rosso” si trova in difficoltà e richiede assistenza. Viene trainata per un tratto e in breve finisce per arenarsi a Capo Suvero. La Capitaneria di porto, che sale a bordo, trova alcuni elementi sospetti, e si affretta a richiamare i vigili del fuoco per rilevare la radioattività del carico. Gli elementi rinvenuti a bordo sono dei documenti che richiamano i trasporti di scorie radioattive e indagini già in corso su auto-affondamenti nel Mediterraneo. Le operazioni di recupero vengono attuate dalla società Castalda e da un’altra società. Olandese, specializzata nel recupero di scorie radioattive. Quest’ultima, la “Smit Tak”, divenne celebre nel 1981 per il complesso recupero, del carico di una nave affondata nella Manica che trasportava scorie radioattive. Le operazioni di recupero sulla “Rosso” durano due mesi, poi, nonostante la nave risulti essere in buone condizioni, viene rottamata in tutta fretta. Una parte del carico, definita “materiale putrescente” dalle autorità, finisce in discariche calabresi. Ma sulle operazioni di recupero sorgono altri dubbi: perché è stato aperto un varco nello scafo nel lato non visibile da terra; fra l’altro, vista l’inclinazione dello scafo, il meno idoneo per operazioni di scarico? La “Rosso” era già salita agli onori della cronaca alcuni anni prima con il nome di “Jolly Rosso”, una delle famigerate “navi dei veleni” che transitarono per i porti di mezzo mondo prima di essere bloccate o bonificate del loro carico illecito di rifiuti tossici e nocivi che spregiudicati faccendieri italiani cercavano di scaricare sulle spalle di alcuni paesi del terzo Mondo. Nomi come “Koko” (in Nigeria), “Jolly Rosso”, “Karin B.”, “Deep Sea Carrier”, “Lynx” e “Zanoobia” sono legati all’emergere di traffici illeciti di rifiuti dal nord al sud della Terra. In quel frangente l’opinione pubblica cominciò a percepire che l’Italia era al centro di attività illecite e di giri di affari colossali nel settore dei rifiuti pericolosi. Un’altra nave ancora. Nel settembre 1987 fa naufragio la “Rigel” al largo di Capo Spartivento. Si tratta di un affondamento entrato nelle cronache giudiziarie grazie a un procedimento per truffa ai danni della compagnia assicuratrice. Sui documenti di carico, secondo gli inquirenti, era dichiarata merce mai salita a bordo della “Rigel” ma registrata per ottenere il risarcimento del danno. La “Rigel” affonda nello Jonio senza lanciare alcun “May Day”. Dopo l’affondamento, l’equipaggio sparisce e non si riesce neppure a rintracciare il comandante. Il viaggio della “Rigel” era iniziato a Marina di Carrara dove, secondo le accuse formulate dalla magistratura spezzina, era stato corrotto un funzionario per evitare l’ispezione del carico. La magistratura di Reggio, intanto, avanza il sospetto di un trasporto pericoloso inerente il traffico illecito di scorie radioattive. Si ipotizza un auto-affondamento effettuato per ottenere due scopi, entrambi illeciti: truffa alla compagnia assicuratrice e smaltimento illegale di rifiuti nucleari. Versante orientale del Mediterraneo. I fondali e i litorali del Gargano e delle Isole Tremiti ospitano alcuni relitti abbandonati con le scorie e addirittura un cimitero subacqueo di containers, una sorta di bomba ecologica ad “orologeria.” Per 4 lustri l’Eni (stabilimento Anic-Enichem di Manfredonia) e la Montedison (stabilimento Saibi non ancora bonificato a Margherita di Savoia, nel cuore delle saline più grandi d’Europa) hanno sversato al largo del promontorio garganico e delle Isole Diomedee migliaia di tonnellate di rifiuti chimici (fatti acclarati in tribunale: la vicenda delle navi “Irene” e “Isola Celeste”). Un altro esempio per tutti: i mercantili “Et Suyo Maru” e “Panayiota”. A 12 miglia al largo di Vieste esiste sui fondali un cimitero subacqueo di containers. Nel luglio del 1998 i cosiddetti “cassoni” metallici che hanno causato la morte del pescatore Cosimo Troiano (26 anni, di Manfredonia) vengono filmati dai sub del Comsubin (Marina militare). Nel lago costiero di Varano (comunicante mediante due canali con l’Adriatico) recentemente il Cnr ha trovato il cesio 137, un radionuclide artificiale. Allora, è tutto normale e sotto controllo? L’opinione pubblica è disinformatata a puntino? C’è una nave in fondo al mare, anzi ce ne sono tante, troppe. Navi cariche di morte. E c’è un paese, l’Italia, con la sua lunga e antica tradizione marinara, che è fin troppo abituata a veder transitare al largo delle sue coste e nei suoi porti ogni tipo di traffico illegale. Al massimo se ne parla ma non si fa niente per combattere un consolidato sistema di esportazione istituzionale degli scarti mortali di origine industriale e sanitaria. Non c’è da stare allegri: il Mediterraneo (ma non solo) è stato trasformato in una pattumiera industriale con esiti imprevedibili sulla vita che lo popola e che da esso dipende, compreso l’essere umano. Che fare nell’immediato? Almeno il minimo in uno Stato di diritto: monitoraggio, recupero, bonifica a carico dei (spesso) noti responsabili e indagini epidemiologiche sui territori. I vari governi (di centro destra e centro sinistra) sono responsabili di questo disastro ambientale e sanitario. Nei palazzi del potere sanno ma tacciono. Da tempo sono stati contattati i ministri italiani della Difesa e dell’Ambiente e loro, nemmeno rispondono, alla stregua dei latitanti sindaci garganici (ad eccezione di Costantino Squeo, primo cittadino di San Nicandro), del presidente della provincia di Foggia, Antonio Pepe (Pdl), troppo indaffarato al parlamento italiano, a palazzo Dogana e nel suo studio di notaio, nonché del presidente dell’ente Parco, avvocato Gatta. Qualcuno per fortuna si è fatto vivo: Jerzy Buzek, il presidente del Parlamento europeo ha promesso un interessamento dell’Ue e sulla base di una nostra inchiesta è stata appena depositata un’interrogazione a Strasburgo. Nel frattempo, come è noto alle autorità sanitarie locali e nazionali, nella popolazione della montagna del sole si registra un impennamento di neoplasie maligne e malformazioni nei bambini. Esiste un nesso di causalità con l’evidente inquinamento marino della costa? Qual è il grado effettivo di contaminazione ambientale? Perché in nessun ospedale della Capitanata esiste un registro tumori? Per le autorità è come al solito “tutto a posto”? I parlamentari pugliesi seguiteranno a dormire sonni beati scaldando le agognate poltrone o preferiranno dimettersi e andare a lavorare? Il governatore Vendola, da anni ben informato, ora farà finalmente qualcosa? Il prefetto Nunziante potrebbe adottare qualche provvedimento risolutivo in tempi rapidi prima che qualcuno perda la pazienza dinanzi a tanti morti e malati di cancro? In materia imperversa l’improvvisazione. Legambiente, ad esempio, almeno per l’Adriatico nonostante il transito continuo e ben sponsorizzato di Goletta Verde alle Tremiti e nel Gargano, stranamente non si è resa mai conto del fenomeno, ma ora ha addirittura scopiazzato integralmente lo stralcio di alcune inchieste giornalistiche senza citare la fonte (vedi elenco navi affondate 1979-2001). Il Gargano non è il terzo mondo europeo e tantomeno una discarica.

Gianni Lannes
(da Terra Nostra - http://www.italiaterranostra.it/?p=2536)

Rassegna Stampa 13/01/2010 I - Parco Saurino: percolato fuoriesce dal sito di stoccaggio


Continua a fuoriuscire senza interruzioni il percolato dal sito di stoccaggio di Parco Saurino a Santa Maria la Fossa. Le piogge che hanno colpito in questi giorni la provincia di Caserta ed in particolar modo i paesi del Basso Volturno non hanno solo ingrossato il letto del fiume Volturno, ma sono andate ad intasare anche i contenitori dove il liquido proveniente dai rifiuti viene provvisoriamente stoccato in attesa di essere smaltito. L’abbondanza di acqua e le inadeguate misure di contenimento, unite allo smaltimento (in ritardo) che dovrebbe essere messo in atto dagli organi provinciali e statali competenti, hanno solo peggiorato la situazione determinando l’invasione del percolato nelle campagne circostanti. Ora il rischio è che il materiale trasportato dai canali di scolo possa invadere anche i terreni seminati a frumento situati a ridosso delle aree dove si riversa il materiale inquinante. Amministratori e tecnici del Comune di Santa Maria la Fossa - fra questi l’assessore all’Ambiente Francesco Cepparulo - hanno già allertato l’Arpac, l’agenzia regionale di protezione ambientale che dovrà subito effettuare delle analisi per capire l’effettiva entità del danno provocato finora. A rischio c’è soprattutto il frumento destinato agli allevamenti di animali cui è legata la produzione di latte e derivati. Al momento la gravità della situazione ambientale resta sotto osservazione e intanto, mentre si consuma questo nuovo capitolo, Parco Saurino attende ancora che vengano sbloccati i fondi statali con i quali si dovrà provvedere allo smaltimento del percolato. Ma se a Santa Maria La Fossa, le notizie non sono rassicuranti, in altri centri vicini qualcosa, in termini di risanamento, comincia a muoversi. A Casaluce ad esempio. Il comune della black list il cui sindaco Nazzaro Pagano è stato da subito escluso dall’ipotesi della rimozione per essere stato eletto soltanto qualche mese fa, l’attenzione è concentrata sulla riqualificazione delle periferie. Dopo la rimozione dei rifiuti, effettuata ad opera del Comune, sulla strada provinciale che conduce alla reggia borbonica di Carditello attraversando il canale dei Regi lagni, saranno bonificate anche le discariche abusive presenti in via Lemitone II tratto (al confine con Frignano) e in via Piro Consortile(al confine con Teverola). Il risanamento dei siti, che si estenderà anche a via Frascone, sarà effettuato dalla società Astir spa, che, oltre alla rimozione dei cumuli di rifiuti, dovrà anche prevedere l’installazione di un sistema di videosorveglianza e, al contempo, garantire un adeguato impianto di pubblica illuminazione. Il progetto di bonifica per i siti contaminati, già censiti e caratterizzati senza essere nel tempo mai definitivamente risanati nonostante gli annunci del commissariato di governo, investirà quattro comuni: nel Casertano, oltre a Casaluce, anche Cesa e Capodrise. Solo Marano fra i comuni napoletani rientrati nel programma di interventi che ha richiesto il finanziamento complessivo di tre milioni e seicento mila euro.


Fabio Mencocco, Alessandra Tommasino
(da Il Mattino Caserta, 13 gennaio 2010 in Rassegna Stampa Coordinamento Rifiuti della Campania)

Rassegna Stampa 16/01/2010 I - Termovalorizzatore di Acerra: Impregilo contro il Governo




Neanche un anno fa, nella grande sala del termovalorizzatore, Massimo Ponzellini, gran patron della Impregilo, fu insignito della qualifica di "eroe", elargita da Berlusconi a lui e a tutti coloro che sui rifiuti - spiegò il premier - si sono impegnati e sono sopravvissuti alle indagini dei giudici. Giorno felice, verso la fine di marzo, con l’imprenditoria meneghina schierata ad Acerra per l’apertura dell’impianto. Per Impregilo un vero e proprio riscatto, dopo anni di contestazioni sul contratto e la contesa su 750 milioni sequestrati dalla Procura di Napoli. Ora però il feeling col governo subisce uno stop.
La società che ha costruito l’impianto di Acerra, la Fisia (gruppo Impregilo), non ha gradito molto il dettato del decreto con il quale a fine anno è stata sancita la fine dell’emergenza, ed ha opposto un ricorso sulla base dell’articolo 700 del Codice civile. Due i punti di disaccordo.

Il primo riguarda i crediti che Fisia ritiene ancora di vantare nei confronti del Governo. Sarebbero oltre 300 milioni, di cui 80 derivanti dalla fase in cui era ancora in vigore il vecchio contratto, 200 relativi al pagamento degli stabilimenti, ex Cdr compresi, e altri 50 dai rimborsi spese, sempre sostenuti da Fisia, nella fase post-contrattuale. Crediti che vengono di fatto congelati. Il decreto prevede infatti che la neonata Unità stralcio accerti tutti i debiti e crediti maturati nella gestione commissariale entro il 31 gennaio 2011. Fino a quella data però nessuno potrà intraprendere azioni giudiziarie verso il Commissariato. Inoltre i crediti eventualmente maturati comunque non produrranno interessi né saranno soggetti a rivalutazione monetaria.

La seconda opposizione riguarda invece specificamente la cessione dell’impianto di Acerra. Il decreto prevede che debba esserne ceduta la proprietà entro il 31 dicembre 2011. Destinatari ipotizzati dal decreto sono la Regione Campania, oppure altri enti pubblici, la Protezione civile o anche privati. Il prezzo è quello che risulterà dai parametri di uno studio dell’Enea, e l’Enea stesso lo deve stabilire entro la fine di gennaio.

Punto delicato. Nei giorni precedenti la stesura del decreto era circolata l’ipotesi che il prezzo fosse già oggi definito in quell’atto, da parte del Governo. Si parlava di una cifra fra 350 e 400 milioni. Ma insorse il presidente della Regione Antonio Bassolino, che reclamò l’anomalia di una simile prassi. Obiezione accolta: la versione definitiva del decreto demanda la cosa all’Enea. Ma Fisia ora si oppone a questa sorta di vendita forzata. Tanto più che è accompagnata da altri particolari. Fra questi l’obbligo anche di un suo affitto alla Protezione civile di Guido Bertolaso, per 15 anni, al prezzo di 30 milioni l’anno. Inoltre il prezzo dell’affitto deve essere defalcato dal prezzo finale di vendita e per questo è la stessa Fisia a dover presentare un fideiussione per quelle somme. La società non ci vede chiaro, anzi intravede una serie di legacci che ledono i suoi interessi di impresa privata: e infatti l’iniziativa intrapresa prevede anche la richiesta di adire la Corte di Giustizia europea per il contrasto fra il decreto e la normativa unitaria sul diritto di impresa. Inoltre si chiede l’inibizione del decreto, cioè la non applicabilità delle norme contestate. Ricorso presentato al tribunale di Genova, dove ha sede legale la Fisia, con una prima udienza già fissata il 26 gennaio.


Roberto Fuccillo
(da la Repubblica Napoli, 16 gennaio 2010)

Rassegna Stampa 14/01/2010 I - La Cartofer e i rifiuti tossici








La campagna pubblicitaria martellante su radio e tv private ne dava un'immagine simpatica ed efficiente. Dalle indagini dei Carabinieri del Noe, invece, è emerso che la Cartofer di Arzano (e la Delfran di Caivano, altra società che fa capo alla stessa famiglia), dietro il paravento della rottamazione di veicoli, avevano impiantato un traffico di rifiuti pericolosi che attraversava l'Italia da Sud a Nord.
Ad Arzano gli automezzi venivano schiacciati senza essere prima privati di batterie, dischi dei freni, gomme e marmitte; quindi, ridotti in cubi e ancora pieni di sostanze tossiche, venivano inviati in Veneto e nel Friuli-Venezia Giulia per essere fusi e riutilizzati.
A Caivano, invece, era stato impiantato un mulino nel quale venivano triturati, abusivamente e senza alcuna precauzione, metalli di ogni tipo: bombole di gas e di ossigeno, elettrodomestici, addirittura contenitori di vernice. A rendere più grave tutto questo, il fatto che gli impianti abbiano funzionato per mesi nonostante la revoca dell'autorizzazione per la mancanza del certificato antimafia (nuovamente ottenuto due mesi fa).
Ieri, infine, il blitz: quindici le persone arrestate con le accuse di associazione a delinquere e traffico di rifiuti, di cui sette in carcere e otto ai domiciliari; sei quelle con l'obbligo di dimora. Sono state sequestrate inoltre imprese per un valore di 450 milioni di euro. I provvedimenti sono stati emessi dal gip Maria Gabriella Pepe su richiesta del pm Federico Bisceglia. Il gip ha disposto il carcere per i sei fratelli Del Prete, titolari delle due aziende, e per il direttore tecnico Deho Maselli, ingegnere; tra le persone ai domiciliari, anche un legale, l'avvocato Alessandro Di Pietro, accusato di avere aiutato i Del Prete ad aggirare la legge costituendo società di volta in volta diverse, tutte dedite al traffico di rifiuti. Le indagini sono dei carabinieri del Noe, il nucleo operativo ecologico, coordinati dal Maggiore Giovanni Caturano. Indagini, peraltro, accuratissime: oltre alle intercettazioni telefoniche, sono state realizzate riprese filmate anche aeree, mentre i camion utilizzati per il trasporto delle auto schiacciate sono stati seguiti attraverso l'Italia grazie ad impianti gps. La rottamazione dei veicoli veniva eseguita in maniera sommaria per risparmiare sui costi: eppure, la Cartofer riceveva i contributi statali per ritirare le auto e smaltirle. Analogamente, la Delfran triturava grossolanamente oggetti di ogni tipo. Nelle fornaci del Nord Italia arrivava di tutto e i titolari se ne lamentavano con i fratelli Del Prete, soprattutto con Giovanni, ritenuto dagli investigatori il leader del gruppo. Avvertiva il 25 maggio 2006 uno dei responsabili della Iro, Acciaierie industriali riunite orolesi: «Ruote delle ruspe, bombole e rulli non devono esserci, perché il rischio è enorme... Quella roba lì dev'essere tagliata». Il giorno dopo, altro problema nella lavorazione e altra telefonata, sempre a Giovanni Del Prete: «Mi fai ammazzare la gente,dai!». Il 5 giugno Giovanni parlava con il fratello Giuseppe di un carico di «proler», cioè di ferro triturato proveniente dal mulino: «Bisogna fare tre viaggi di proler per la Valsabbia, per mi devi prendere il meglio che ci sta... che poi tutta a munne... la roba più bruttulilla la mandiamo all'Alfa Acciai». In questo modo, accusano i Magistrati, i fratelli Del Prete erano riusciti a diventare ricchissimi e molto potenti. Infastiditi dai continui controlli del Noe, come si evince dalle intercettazioni, ma certi di superarli senza troppi problemi. Parlando il 19 ottobre 2006 con il titolare della Siderurgica di Udine, dove finivano le auto rottamate alla meglio, così si vantava Giovanni Del Prete: «Perché vogliamo aprire un altro cantiere per dare dimostrazione che siamo ancora più forti di prima e praticamente per metterci Napoli ai nostri piedi... voglio acquistare una pressa, perché vogliamo aprire anche l'altro cantiere di Caivano. Anche lì aprire alla minuta e alla spicciolata, praticamente». C'erano problemi con la normativa antimafia: uno dei fratelli è sposato con una parente dei Moccia di Afragola e per circa tre anni l'autorizzazione a svolgere l'attività di rottamazione è stata revocata. C'erano inoltre problemi legati al piano regolatore di Caivano, che impedivano ai Del Prete di allargarsi quanto avrebbero voluto. Per appianarli, o tentare di appianarli, si cercavano contatti in Prefettura, in Questura, al Comune. I titolari della Cartofer, come si evince dalle telefonate, hanno cercato in tutti i modi di avvicinare funzionari prefettizi e di polizia per evitare la tegola dell'antimafia. Quanto al Comune di Caivano, il Sindaco è stato affrontato a muso duro e minacciato. Riferiva il 9 marzo 2006 Delio Maselli a Giovanni Del Prete: «Io ho detto, non mi faccia arrivare a fare cose che non vogliamo fare, gliel'ho detto proprio. Dammi tempo che domani viene e io ti faccio sapere». Ottimi, invece, i rapporti tra Maselli e un funzionario dell'ufficio tecnico. Proprio i contatti tra l'entourage dei Del Prete e gli appartenenti alla Pubblica Amministrazione intendono ora approfondire gli investigatori.

Titti Beneduce
(da Corriere del Mezzogiorno – NAPOLI del 14 gennaio 2010 in Rassegna Stampa del Coordinamento Regionale Rifiuti della Campania).