«Nazionalità è per noi unità: unità viva, libera e potente come Stato. E perché noi vogliamo questa unità come libero Stato?
Perché noi sappiamo che solo nella unità come libero Stato possono spiegarsi liberamente tutte le potenze della nostra vita;
solo in quello noi possiamo essere e saperci veramente noi». (Bertrando Spaventa)


martedì 26 gennaio 2010

Rassegna Stampa 26/01/2010 II - Allo Stato la tutela delle acque e alla Regione la competenza nel loro utilizzo



LIVORNO. Il riparto delle competenze fra Stato e Regione in materia di acque dipende dalla distinzione fra uso e tutela del bene: all'ente locale spetta quella dell'utilizzazione, allo Stato quella della tutela.
Lo afferma la Corte Costituzionale che con sentenza di questo mese dichiara illegittima la legge regionale della Campania nella parte in cui fissa la durata della concessione a 50 anni e non in 30. Una dilatazione temporale che, fra l'altro urta con la necessità in sede di rinnovo della concessione della procedere di Valutazione d'impatto ambientale (Via).
La vicenda ha inizio quando il Presidente del Consiglio dei ministri ha proposto questione di legittimità costituzionale, della legge della Regione Campania (la n. 8 del 2008) relativa alla disciplina della ricerca e utilizzazione delle acque minerali e termali, delle risorse geotermiche e delle acque di sorgente. E in particolare nella parte in cui esclude la valutazione d'impatto ambientale o valutazione di incidenza per i rinnovi delle concessioni "in attività da almeno cinque anni dall'entrata in vigore della stessa legge regionale". Perché contraria non solo alla competenza esclusiva attribuita allo Stato dalla Costituzione (così come riformata nel 2001) in materia di tutela ambientale (art. 117 primo e secondo comma lettera s)), ma anche alle disposizioni in materia del Dlgs 152 /06.

La legge regionale impedirebbe la verifica della "permanenza della compatibilità [...] con i mutamenti delle condizioni territoriali e ambientali eventualmente sopravvenuti" anche in ipotesi di rinnovo della concessione "correlata a opere a suo tempo già sottoposte alla procedura di valutazione d'impatto ambientale". E contrasterebbe con i principi della disciplina "che sottopone a regolazione dell'Autorità concedente finalizzata a garantire il minore deflusso vitale nei corpi idrici di tutte le concessioni di derivazione di acque pubbliche".

La legge regionale campana prevede infatti che "le concessioni perpetue date senza limite di tempo, in base alle leggi vigenti anteriormente all'entrata in vigore del regio decreto n. 1443/1927, sono prorogate per cinquanta anni dall'entrata in vigore della presente legge, e le relative subconcessioni per venti anni, salvo che rispettivamente il concessionario o il subconcessionario non siano incorsi in motivi di decadenza".
L'ordinamento italiano, per lungo tempo, si è occupato soltanto dell'aspetto dell'uso e della fruizione delle acque minerali naturali e termali trascurando quello relativo alla tutela.
Il testo unico delle leggi sulle acque e sugli impianti elettrici si occupava di concessioni di piccole e grandi derivazioni, ma non di tutela dell'acqua. In questo contesto si inseriva la disposizione dell'art. 117 Cost., nel vecchio testo (ossia quello anteriore alla modifica costituzionale del Titolo V della parte seconda) che attribuiva la competenza in materia di Acque minerali e termali alle Regioni.
Con il Dlgs 152/06 il legislatore ha provveduto alla tutela delle acque facendo rientrare tutte le acque superficiali e sotterranee - ancorché non estratte dal sottosuolo - nel demanio dello Stato. Precisando pure che "le acque termali, minerali e per uso geotermico sono disciplinate da norme specifiche, nel rispetto del riparto delle competenze costituzionalmente determinato".
Il riparto delle competenze, è agevole dedurlo, dipende proprio dalla distinzione tra uso delle acque minerali e termali, di competenza regionale residuale, e tutela ambientale delle stesse acque, che è di competenza esclusiva statale, ai sensi del vigente art. 117, comma secondo, lettera s), della Costituzione.
Fra l'altro di tale tutela ne dà conferma lo stesso Dlgs 152/06. Perché dispone che le concessioni di acque minerali e termali ossia i provvedimenti amministrativi che riguardano la loro utilizzazione, devono osservare i limiti di tutela ambientale posti dal Piano di tutela delle acque, in modo che non sia pregiudicato il patrimonio idrico e sia assicurato l'equilibrio del bilancio idrico.
Quindi, il principio di temporaneità delle concessioni di derivazione e la fissazione del loro limite massimo ordinario di durata in trenta anni (salvo specifiche ed espresse eccezioni), senza alcuna proroga per le concessioni perpetue in atto, rappresentano livelli adeguati e non riducibili di tutela ambientale. Livelli individuati dal legislatore statale che fungono da limite alla legislazione regionale.

(da http://www.greenreport.it/_new/index.php?page=default&id=3026, 25 gennaio 2010)

Rassegna Stampa 26/01/2010 I - Rifiuti e liquami, è on-line la mappa delle criticità


Eternit, materiale combusto, automobili abbandonate sulle sponde degli alvei, elettrodomestici, ferro, acciaio, carcasse di animali, pneumatici, indumenti. Sono tante le storie di degrado raccontate dalla mappa interattiva che Arpac rende disponibile on-line, con la ricognizione di scarichi e sversatoi nell’area dei Regi Lagni. Sono più di trecento le segnalazioni inviate dalle squadre di Arpac Multiservizi che hanno setacciato il terreno intorno ai canali borbonici. Si tratta di rifiuti urbani o speciali abbandonati sul terreno, oppure di scarichi che convogliano liquami all’interno degli alvei. Terminata la fase "in campo" tutti i dati vengono raccolti in un database e resi disponibili su internet, dove chiunque può consultarli grazie a un’interfaccia elaborata dai tecnici Arpac.

Nel database, che verrà completato nelle prossime settimane, è stato già inserito circa il 50% dei dati raccolti in campo. Il reticolo dei Regi Lagni è individuato dalle linee di colore blu, sullo sfondo fornito dalle mappe satellitari di Google. I tratti contrassegnati in rosso indicano le parti non controllabili poiché interrate o non accessibili. Zoomando sulle aree dove transitano gli alvei, appaiono segnaposto contrassegnati da “R” (per i rifiuti) e da “S” (per gli scarichi). Quando si clicca su un segnaposto, compare una scheda relativa alla “scoperta” fatta dalle squadre sul campo. Ogni scheda comprende una o più foto, con la data e l’ora in cui sono state scattate, la località, e una descrizione del materiale o delle condutture individuate.

(da La Rete Civica di Napoli, 7 Dicembre 2009)

lunedì 25 gennaio 2010

Rassegna Stampa 25/01/2010 II - Quanta Italia sotto l'amianto


Al microscopio è dolce, sembra un batuffolo di cotone, una nuvola del cielo. Nei polmoni è micidiale, uccide. È l’amianto. Ha ammazzato più operai italiani di qualsiasi altra causa. Perché è stato legale fino al 1992, confuso per 50 anni con il destino cinico e baro. Non si voleva e non si doveva sapere, perché d’amianto erano fatti tetti e macchinari delle maggiori aziende, e il killer viaggiava sui i treni. Poi - stanchi di ritrovarsi in processione ai funerali - gli operai hanno preso coscienza. La medicina del lavoro si è dedicata. Il Parlamento arrivò alla legge che riconosceva il dramma di rinterzo, introducendo i benefici previdenziali: un anno di esposizione all’amianto valeva 1,5 ai fini della pensione. Bisognava però essere stati esposti per almeno dieci anni e serviva un “curriculum” certificato dall’azienda. Difficile, se è il mandante che deve riconoscere l’omicidio: in pochi ne hanno giovato. Poi è arrivato il governo Berlusconi, con Tremonti a caccia di quattrini, come sempre: nel 2003 la legge è stata complicata, il benificio è stato ridotto a 1,25 per ogni annodi lavoro e sono stati inseriti parametri di esposizione ardui da dimostrare, a distanza di anni. Si sa, per risparmiare è meglio un operaio morto che un lavoratore in pensione. Il governo successivo di centrosinistra rimodulò quei tempi e soprattutto - visti anche i primi processi che interessavano vari stabilimenti in tutta la penisola - stanziò nella Finanziaria del 2007 un fondo di 30 milioni per risarcire le vittime. Solo che serviva un decreto attuativo entro novanta giorni per sbloccare quei soldi. Il governo Prodi si attardò e morì per consunzione di lì a poco, i successori (sempre i soliti, Berlusconi, Tremonti...) se ne dimenticarono. “Ballavano” anche le bonifiche di capannoni e terreni.
Ci sono ancora 30 milioni di tonnellate di amianto, in giro per l’Italia e 2,5 miliardi di metri quadrati di coperture, sopra le teste di qualcuno: lo scrive il Cnr. Di mesotelioma muoiono ogni anno 3 mila persone.
Una morte a piccoli sorsi, l’amianto lavora per anni, rimanda l’appuntamento, ma arriva sempre.

Marco Bucciantini
(da L’Unità, 25 gennaio 2010)

Rassegna Stampa 25/01/2010 I - Morire d'amianto sulle dolci colline dell’Oltrepò pavese


Alla fine il sindaco allarga le braccia, sotto la bandiera tricolore: «Ho visto famiglie sterminate, andavo a pulire la tomba di mio fratello pensando che fosse polvere di cemento e invece era amianto, magari domani mi ammalo pure io... cosa possiamo dire ancora?». Già, cosa si può aggiungere, come si può spiegare e capire la storia di una fabbrica, come la Fibronit, che accompagna per un secolo la vita quotidiana di una tranquilla comunità della bella provincia italiana, alimentandone il reddito e le speranze, per poi scoprire che oltre quel recinto, dentro quei reparti, si nascondevano la malattia e la morte. Luigi Paroni, sessantenne, è il primo cittadino di Broni, comune di quasi diecimila abitanti che s’incontra appena passato il Po, oltre lo storico ponte della Becca. L’aria è padana, non come la intende la stupidità leghista, ma perché la cultura e la storia hanno radici profonde nel lavoro, nella tradizione, nella democrazia della gente. Questa terra è stata cantata da Gianni Brera e Alberto Arbasino, qui nasce il Barbacarlo, formidabile vino rosso. Da ragazzi, quando avevamo due lire, scappavamo da Milano e portavamo la morosa nelle trattorie su queste colline facendo un figurone. Il cimitero ci ricorda che qui è nato ed è sepolto un italiano perbene: Paolo Baffi, indimenticato governatore della Banca d’Italia. Broni nasconde, purtroppo, una tragedia immane, una strage silenziosa e dimenticata che si alimentagiorno dopo giorno. Potrebbe essere paragonata al dramma dell’Eternit. Anche qui l’amianto è stato per decenni una presenza inquietante ma tollerata, uccideva ma nessuno sapeva nulla o magari si stava zitti perchè il profitto per il padrone e uno stipendio per l’operaio mettevano tutto a tacere. C’è stata questa stagione, un lungo periodo di industrializzazione senza regole e senza limiti per il boom economico. La ex Cementifera Italiana Fibronit produceva cemento già nel 1919, poi nel 1932 iniziò la lavorazione dell’amianto, continuata fino al 1993 quando, finalmente, una legge nazionale impose la cessazione per la sua pericolosità. Ma il danno ormai era stato fatto. «Si può affermare che tra i dipendenti degli ultimi venti, venticinque anni di attività della fabbrica circa 600-700 siano morti per le conseguenze dell’esposizione all’amianto, per il periodo precedente è difficile fare stime» osserva Costanza Pace, geologa, vicepresidente dell’Associazione italiana esposti all’amianto di Broni, «noi chiediamo due cose: il risarcimento per le famiglie delle vittime degli operai e degli altri cittadini colpiti, la bonifica dell’area dell’ex Fibronit». A sedici anni dalla chiusura dello stabilimento la minaccia dell’amianto si insinua ancora nella vita dei cittadini. Il mesotelioma pleurico (il cancro ai polmoni) ha un periodo di incubazione lunghissimo, venti trent’anni, anche di più in alcuni casi. L’apice, il punto più pericoloso per Broni e i comuni circostanti, è atteso dopo il 2015. Intanto si possono considerare i numeri e i fatti di oggi. L’Asl ha accertato negli ultimi tre anni cento nuovi casi di mesotelioma all’anno nella zona.
La provincia di Pavia detiene il triste record in Lombardia e in Italia per i casi di mesotelioma e il contributo decisivo a questo primato arriva proprio da Broni.
Le conclusioni del 2006 di un’indagine commissionata dall’Asl al Dipartimento di Medicina preventiva dell’Università di Pavia relativa agli anni 1994-2003 hanno rilevato che l’incidenza del mesotelioma tra i residenti del comune di Broni era 25 volte superiore rispetto all’atteso a causa delle emissioni di polvere durante il periodo di attività della Fibronit. Sono stati e sono colpiti sia ex operai, sia comuni cittadini. Muoiono le mogli che lavavano le tute dei mariti intrise di polvere d’amianto. Sono morti alcuni cittadini di un’area sotto vento, dove venivano portate le polveri. È morto anche un ex postino che per anni aveva consegnato le lettere all’ingresso della Fibronit. Parlare di giustizia in queste tragedie è difficile. Ma qualcosa finalmente si è mosso, anche tra la popolazione, prima rassegnata e ora più decisa, grazie al lavoro di Legambiente e della Cgil. La Procura di Voghera ha chiuso l’inchiesta per i morti della Fibronit. Le denunce e gli esposti di anni hanno portato a un primo risultato: ci sono dieci indagati tra ex amministratori e dirigenti dell’azienda, anche se non c’è più nessuno degli ex proprietari originari, la famiglia Milanese di Casale Monferrato. I cespiti aziendali residui sono in curatela fallimentare. Le accuse sono pesanti: disastro colposo, rimozione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro e omicidio colposo plurimo. L’indagine del sostituto procuratore Maria Gravina è stata un’opera gigantesca, gli atti depositati a disposizione delle parti sono costituiti da ben 80mila pagine. Il sindaco Paroni spera «in un processo che avrebbe un grande valore morale per tutti», e vorrebbe «poter contare su tutti i finanziamenti necessari alla bonifica il cui piano doveva finire nel 2014,masiamo già un anno in ritardo». La campagna elettorale per le regionali potrebbe smuovere qualche cosa, anche se Formigoni è molto impegnato nelle inaugurazioni. La chiusura della fabbrica e l’amianto hanno avuto un brutto effetto: è diminuita la popolazione, l’economia ne ha risentito. Oggi ci sono solo cinque aziende con più di 30 addetti ciascuna. C’è un po’ di artigianato, il piccolo commercio, l’agricoltura legata al vino. Il sindaco vorrebbe attrarre qualche investimento, rilanciare il teatro, creareunpolo culturale multifunzionale... Broni meriterebbe una nuova stagione. Ma i conti col passato bisogna farli. E gli ex operai malati in giro con la bombola ad ossigeno sono la testimonianza visibile che un po’ di giustizia ci vuole, anche nell’epoca dei fanatici del processo breve. Ottavio Guarnaschelli, 60 anni, si considera fortunato: «Quelli che lavoravano con me sono quasi tutti morti, io mi faccio visitare ogni tre mesi sperando di evitare guai. Certo se penso agli anni che abbiamo lavorato avvolti dalla polvere di amianto mi chiedo se non si poteva fare qualche cosa prima per evitare tutti questi malati, questi morti».Male battaglie non finiscono mai, anche quando le fabbriche sono chiuse. Bruno Salvatore, ex dipendente Fibronit, è originario di Cosenza, vive qui dal 1952. Ha bisogno dell’ossigeno. Si lamenta: «Mi vogliono togliere l’assegno per le malattie professionali, mi hanno scritto che si sono sbagliati nel 1983 e io cosa faccio? Anni fa avevo denunciato la Fibronit, a Casale Monferrato, non è mai successo nulla». L’ultimo incontro è con la memoria storica di Broni. Guido Varesi, classe 1912, porta con eleganza il tabarro. Va tutti i giorni al circolo per incontrare gli amici e bere un calice. Ha 98 anni, si considera un sopravvissuto e parla con dolcezza, come solo i vecchi sanno fare. «Io sono una disgrazia per l’Inps: sono sopravvissuto a due guerre mondiali, ho fatto il partigiano, ho lavorato 38 anni alla Fibronit e sono ancora vivo e vegeto. Mia moglie non ce l’ha fatta, lavorava al piano di sopra nel reparto delle donne. I miei compagni non ci sono più e adesso c’è gente che si ammala ancora, chissà come sarà il futuro...».

Rinaldo Gianola
(da L’Unità, 25 gennaio 2010)

domenica 24 gennaio 2010

Rassegna Stampa - Navi di veleni: ecomafie di Stati e multinazionali del crimine


Come si fa a smaltire un carico di rifiuti tossici e magari radioattivi? Elementare Watson: basta stivarlo su una nave in pessime condizioni e poi venderlo a qualche signore della guerra che in cambio chiede solo una buona partita di armi. Oppure comprare una carretta e affondarla insieme ai veleni. Dunque, si acquista un mercantile, si imbottisce di rifiuti pericolosi dichiarando un carico di materiale innocuo e, infine, si inabissa il natante o almeno si tenta; male che vada il relitto viene abbandonato alla deriva. Soltanto negli ultimi 25 anni sono state affondate misteriosamente circa una sessantina di navi nei mari a ridosso della penisola italiana (in particolare Tirreno, Jonio e Adriatico); ma la stima è errata per difetto, anche se soltanto i Lloyd’s di Londra ne certificano 40. Si tratta di imbarcazioni in condizioni disastrose da far sparire sia per truffare le compagnie assicurative sia per smaltire illecitamente sostanze pericolose. Parecchie di queste navi sono state utilizzate prima dell’inabissamento, sia per portare rifiuti verso paesi del Terzo mondo sia per il traffico di armi. La concomitanza fra lo smaltimento illecito di rifiuti e il traffico di armi appare ormai come un dato fondante e svela lo scenario di un doppio coinvolgimento della mafia, ma soprattutto di governi, multinazionali e faccendieri in particolare dei nostri servizi segreti (ex Sismi e Sisde). Ecco un esempio a portata di binocolo. Un ras bellico di un paese africano (ad esempio la Somalia) ha bisogno di molto denaro per comprare armi e munizioni per equipaggiare le proprie milizie; per questa ragione viene contattato dai trafficanti, sovente in alta uniforme. In cambio della possibilità di scaricare in mare davanti alla costa o sulla terra ferma nel territorio controllato da questi, verranno forniti denaro, in parte, e direttamente armamenti. Un “prenditore” del ramo raccoglie rifiuti e scorie in qualche paese industrializzato dell’Occidente, offrendo tariffe per lo smaltimento (a buon mercato) molto più basse dell’usuale. Questi materiali, spesso dichiarati come inerti o come rifiuti non pericolosi, vengono stoccati in qualche deposito temporaneo ben collegato con qualche porto (prevalentemente La Spezia, Civitavecchia, Trieste, Ortona, Manfredonia, Brindisi, Taranto, Crotone, Gioia Tauro). Si acquista una nave, meglio in pessime condizioni e si assoldano un comandante spregiudicato e un equipaggio alla fame. Nel frattempo un altro manager tratta con qualche signore della guerra, il prezzo del terreno o del tratto di mare dove scaricare i rifiuti. Ad accordo concluso, la nave raggiunge il porto di partenza, viene caricata e si allontana rapidamente. Prima di raggiungere la destinazione finale fa una breve sosta: carica le armi che, al confronto dei rifiuti, sono molto meno voluminose. Raggiunta la costa del paese di destinazione finale, iniziano gli scarichi a mare, mentre emissari del leader locale salgono a bordo per ritirare armi e denaro. L’Italia è il porto finale europeo per navi sbarcate in Libano, Nigeria, Venezuela, Somalia, Romania. Fino a non molto tempo fa era prassi usuale di tutti i paesi nuclearizzati, Italia compresa, smaltire direttamente in mare i rifiuti nucleari. Con la firma del trattato internazionale London Dumping Convention del 1972 e del successivo (1976) Barcellona Dumping Protocol, che vietano lo smaltimento in mare di rifiuti in particolare di origine radioattiva, il problema delle scorie atomiche viene aggirato con i traffici illegali. A questo quadro di illegalità bisogna aggiungere un altro dato. La comunità europea in seguito alla Convenzione di Londra non può più eliminare parte delle sue scorie in mare. Questo impedimento sembra del tutto inaccettabile per i nuclearisti europei e per gli industriali senza scrupoli che pur di non sborsare i corretti oneri di smaltimento si sbarazzano dei propri residui dove capita. Ergo: si aggira l’ostacolo con il finanziamento di uno studio di smaltimento, sotto fondali marini argillosi precedentemente individuati, attraverso contenitori speciali detti penetratori. Una sorta di siluri sganciati da navi attrezzate in modo speciale dette Ro Ro e successivamente controllati via satellite. Lo studio, finanziato per 120 milioni di dollari sia dalla Cee che da altri paesi come Usa, Svizzera e Giappone, viene terminato, ma non si passa mai, almeno ufficialmente, alla fase esecutiva. Nel 1986 scoppia il caso Chernobyl. E si fanno due valutazioni, una politica e una strategica: se si attua il progetto dei penetratori si rischia una sollevazione dell’opinione pubblica e in ogni caso un deposito sottomarino è difficilmente sorvegliabile. Il progetto dei siluri di scorie sembra essere definitivamente abbandonato: poi, invece, ricompare improvvisamente in modo del tutto imprevedibile. Febbraio 1995. Il Corpo forestale di Brescia (un nucleo di investigatori altamente qualificato, inspiegabilmente sciolto per disposizioni superiori) ferma tal Ripamonti che si stava recando in Svizzera per incontrare a Lugano l’avvocato Forni. Ripamonti è un emissario di Giorgio Comerio. Questo ingegnere – gli inquirenti hanno scovato nella sua dimora il certificato di morte di Ilaria Alpi – è il factotum e principale artefice del progetto dei penetratori per la Odm, società che sostiene di aver ingegnerizzato il progetto dei penetratori lanciato dalla Cee nel 1989. La proposta di Comerio aveva come fine la realizzazione di enormi contenitori cilindrici, i penetratori, nei quali stivare altri 40 contenitori più piccoli pieni di scorie nucleari. L’avvocato Forni avrebbe dovuto fare da intermediario con il governo elvetico, mentre un altro personaggio di nome Convalexius, avrebbe dovuto svolgere lo stesso ruolo con il governo austriaco. L’Odm propaganda anche su Internet il suo progetto di smaltimento di rifiuti in mare, siano questi radioattivi o tossici. La società prospera: negli anni apre nuove sedi oltre a quella principale di Lugano risulta avere una rappresentanza a Mosca, il controllo di società in Lussemburgo e Lettonia, rapporti commerciali con Russia, Ucraina, Bulgaria, Romania, Adzerbaijan, Turkmenistan, Crimea, Kirgyzistan, Sudafrica, Gambia, Sierra Leone. Si apprende dai documenti di una commissione parlamentare di inchiesta sui rifiuti che Comerio avrebbe avviato contatti con i leader somali per l’utilizzazione dei penetratori nella parte di fondale davanti alla costa nord-occidentale della Somalia nei pressi di Bosaso. La stessa Odm asserisce di intrattenere relazioni con oltre 50 paesi e non specificate “Nuclear national authority”. La società ha individuato almeno 100 siti di inabissamento fra i quali sono state selezionate 30 zone ottimali. Tra queste è indicata proprio l’area somala già citata. La commissione presieduta da Massimo Scalia riporta come segnalazione accreditata dalle denunce di Unicef, Oms, Organizzazione marittima internazionale e Greenpeace, un’attività di trivellazione e di successivo inabissamento di containers in mare proprio nei pressi di Bosaso. Nella relazione conclusiva della Commissione si legge: “Peraltro la Commissione ritiene doveroso segnalare un’altra coincidenza: proprio nell’area in questione, e in particolare a Bosaso, ha svolto i suoi ultimi servizi televisivi prima di essere uccisa (a Mogadiscio il 20 marzo 1994, ndr) la giornalista della Rai Ilaria Alpi, impegnata, secondo quanto emerso finora, in un’inchiesta giornalistica relativa a presunti traffici di armi”. Quanto a Comerio è inserito a pieno titolo nelle indagini sugli affondamenti delle navi nel Mediterraneo. Su una sua agenda, alla data dell’affondamento della “Rigel”, è scritto “la nave è affondata”. Una coincidenza? A bordo della “Rosso” vengono trovati dei documenti e delle mappe. Copia delle stesse vengono trovate da Comerio. Vi sono segnalati alcuni punti e due di questi corrisponderebbero agli affondamenti di altre due navi, la “Anni” e la “Euroriver”. Un’altra coincidenza? La Odm in un modo o nell’altro figura in numerose inchieste sui traffici, in particolare internazionali, di rifiuti radioattivi. Comerio poi viene arrestato su ordine della magistratura di Bolzano, per tutt’altra vicenda. La notizia è dell’ottobre 1996: si tratta di una mazzetta di trenta milioni di lire per una perizia aggiustata su alcuni lavori eseguiti sulle nuove linee ferroviarie dell’alta velocità. Da quanto si apprende dal lancio Ansa che segnalava il caso, Comerio è stato arrestato mentre ritirava la tangente dalle mani di un imprenditore che stava collaborando con gli inquirenti. Ma torniamo alle navi affondate nello Jonio e nel canale di Sicilia. Per alcuni le indagini sono state condotte in un clima di forte tensione. La morte improvvisa e misteriosa del capitano di corvetta Natale de Grazia nel ’95, uno degli investigatori di punta che collaborava con i magistrati di Reggio Calabria, in particolare Francesco Neri e Nicola Maria Pace a Matera, si è andato a sommare ai numerosi casi di intimidazione denunciati negli anni. Uno dei più gravi problemi che la magistratura ha dovuto affrontare è stata la scarsità dei mezzi necessari per poter effettuare ricerche, rilievi e analisi per accertare la verità sugli affondamenti. Il calendario segna il primo marzo 1994, quando dal porto di Durazzo salpa la motonave “Korabi Durres” battente bandiera albanese. I documenti di carico indicano un trasporto di rottami di rame. La nave si dirige verso le coste italiane, sfiorando il litorale pugliese. Il 2 marzo raggiunge l’area dell’antiporto di Crotone; il giorno seguente la locale capitaneria portuale, sospettando la presenza di immigrati clandestini, sale a bordo per un’ispezione; nella stiva, però, si trovano soltanto rottami metallici gettati alla rinfusa: 1.200 tonnellate di carico. Il 4 marzo la “Korabi” giunge a Palermo, nuova ispezione al largo con rilievi più approfonditi fra i quali alcuni specifici per verificare la presenza di eventuali tracce di radioattività. Che vengono puntualmente riscontrate. Alla nave sono negati l’accesso al porto e il permesso per scaricare il carico a terra. Il 9 marzo alle ore 11,30 la “Korabi” lascia la rada portuale di Palermo diretta a Durazzo. Il 10 naviga nelle acque di Pentimele vicino a Reggio Calabria e le autorità marittime effettuano una nuova ispezione, ma questa volta, al contrario di quanto riscontrato in Sicilia, non viene rilevata alcuna traccia di radioattività. Scattano indagini giudiziarie per scoprire se la “Korabi” ha scaricato in mare parte del carico, ma nel frattempo la nave si è allontanata e se ne perdono le tracce, nonostante la presenza di una flotta Nato per l’embargo alla Jugoslavia. Ricompare più di un anno dopo a Pescara, il 20 aprile ’95, dove viene sequestrata e nuovamente controllata a fondo. Il capitano, Curri Hysen Hajri, viene trattenuto in arresto. Effettuati tutti i controlli, non vengono trovati picchi di radioattività a bordo e la nave, dissequestrata riprende il largo. Che fine ha fatto il carico che il 4 marzo 1994 risultava contaminato? Aprile 1994. Al largo delle coste della Campania, davanti a Salerno, si segnala la presenza di radioattività da torio 234, primo prodotto del decadimento dell’uranio 238, su campioni di alghe e materiale ferroso prelevati a seguito del rinvenimento in mare di alcuni container persi nel naufragio della nave “Marco Polo”. La nave si era inabissata nel maggio del 1993 all’altezza del canale di Sicilia. Le analisi relative a uno di questi containers superano di 5 volte i valori “normali”. L’affondamento della “Marco Polo”, sul quale è stato aperto un procedimento della Procura di Reggio Calabria ha diverse analogie con un altro affondamento avvenuto nelle acque di Ustica, quello della “Koraline”. Anche in questo caso, a seguito del rinvenimento di alcuni container, è stata segnalata la presenza, in concentrazioni anomale, di torio 234. Altra nave altra storia. Nel dicembre 1990 al largo di Vibo Valentia la “Rosso” si trova in difficoltà e richiede assistenza. Viene trainata per un tratto e in breve finisce per arenarsi a Capo Suvero. La Capitaneria di porto, che sale a bordo, trova alcuni elementi sospetti, e si affretta a richiamare i vigili del fuoco per rilevare la radioattività del carico. Gli elementi rinvenuti a bordo sono dei documenti che richiamano i trasporti di scorie radioattive e indagini già in corso su auto-affondamenti nel Mediterraneo. Le operazioni di recupero vengono attuate dalla società Castalda e da un’altra società. Olandese, specializzata nel recupero di scorie radioattive. Quest’ultima, la “Smit Tak”, divenne celebre nel 1981 per il complesso recupero, del carico di una nave affondata nella Manica che trasportava scorie radioattive. Le operazioni di recupero sulla “Rosso” durano due mesi, poi, nonostante la nave risulti essere in buone condizioni, viene rottamata in tutta fretta. Una parte del carico, definita “materiale putrescente” dalle autorità, finisce in discariche calabresi. Ma sulle operazioni di recupero sorgono altri dubbi: perché è stato aperto un varco nello scafo nel lato non visibile da terra; fra l’altro, vista l’inclinazione dello scafo, il meno idoneo per operazioni di scarico? La “Rosso” era già salita agli onori della cronaca alcuni anni prima con il nome di “Jolly Rosso”, una delle famigerate “navi dei veleni” che transitarono per i porti di mezzo mondo prima di essere bloccate o bonificate del loro carico illecito di rifiuti tossici e nocivi che spregiudicati faccendieri italiani cercavano di scaricare sulle spalle di alcuni paesi del terzo Mondo. Nomi come “Koko” (in Nigeria), “Jolly Rosso”, “Karin B.”, “Deep Sea Carrier”, “Lynx” e “Zanoobia” sono legati all’emergere di traffici illeciti di rifiuti dal nord al sud della Terra. In quel frangente l’opinione pubblica cominciò a percepire che l’Italia era al centro di attività illecite e di giri di affari colossali nel settore dei rifiuti pericolosi. Un’altra nave ancora. Nel settembre 1987 fa naufragio la “Rigel” al largo di Capo Spartivento. Si tratta di un affondamento entrato nelle cronache giudiziarie grazie a un procedimento per truffa ai danni della compagnia assicuratrice. Sui documenti di carico, secondo gli inquirenti, era dichiarata merce mai salita a bordo della “Rigel” ma registrata per ottenere il risarcimento del danno. La “Rigel” affonda nello Jonio senza lanciare alcun “May Day”. Dopo l’affondamento, l’equipaggio sparisce e non si riesce neppure a rintracciare il comandante. Il viaggio della “Rigel” era iniziato a Marina di Carrara dove, secondo le accuse formulate dalla magistratura spezzina, era stato corrotto un funzionario per evitare l’ispezione del carico. La magistratura di Reggio, intanto, avanza il sospetto di un trasporto pericoloso inerente il traffico illecito di scorie radioattive. Si ipotizza un auto-affondamento effettuato per ottenere due scopi, entrambi illeciti: truffa alla compagnia assicuratrice e smaltimento illegale di rifiuti nucleari. Versante orientale del Mediterraneo. I fondali e i litorali del Gargano e delle Isole Tremiti ospitano alcuni relitti abbandonati con le scorie e addirittura un cimitero subacqueo di containers, una sorta di bomba ecologica ad “orologeria.” Per 4 lustri l’Eni (stabilimento Anic-Enichem di Manfredonia) e la Montedison (stabilimento Saibi non ancora bonificato a Margherita di Savoia, nel cuore delle saline più grandi d’Europa) hanno sversato al largo del promontorio garganico e delle Isole Diomedee migliaia di tonnellate di rifiuti chimici (fatti acclarati in tribunale: la vicenda delle navi “Irene” e “Isola Celeste”). Un altro esempio per tutti: i mercantili “Et Suyo Maru” e “Panayiota”. A 12 miglia al largo di Vieste esiste sui fondali un cimitero subacqueo di containers. Nel luglio del 1998 i cosiddetti “cassoni” metallici che hanno causato la morte del pescatore Cosimo Troiano (26 anni, di Manfredonia) vengono filmati dai sub del Comsubin (Marina militare). Nel lago costiero di Varano (comunicante mediante due canali con l’Adriatico) recentemente il Cnr ha trovato il cesio 137, un radionuclide artificiale. Allora, è tutto normale e sotto controllo? L’opinione pubblica è disinformatata a puntino? C’è una nave in fondo al mare, anzi ce ne sono tante, troppe. Navi cariche di morte. E c’è un paese, l’Italia, con la sua lunga e antica tradizione marinara, che è fin troppo abituata a veder transitare al largo delle sue coste e nei suoi porti ogni tipo di traffico illegale. Al massimo se ne parla ma non si fa niente per combattere un consolidato sistema di esportazione istituzionale degli scarti mortali di origine industriale e sanitaria. Non c’è da stare allegri: il Mediterraneo (ma non solo) è stato trasformato in una pattumiera industriale con esiti imprevedibili sulla vita che lo popola e che da esso dipende, compreso l’essere umano. Che fare nell’immediato? Almeno il minimo in uno Stato di diritto: monitoraggio, recupero, bonifica a carico dei (spesso) noti responsabili e indagini epidemiologiche sui territori. I vari governi (di centro destra e centro sinistra) sono responsabili di questo disastro ambientale e sanitario. Nei palazzi del potere sanno ma tacciono. Da tempo sono stati contattati i ministri italiani della Difesa e dell’Ambiente e loro, nemmeno rispondono, alla stregua dei latitanti sindaci garganici (ad eccezione di Costantino Squeo, primo cittadino di San Nicandro), del presidente della provincia di Foggia, Antonio Pepe (Pdl), troppo indaffarato al parlamento italiano, a palazzo Dogana e nel suo studio di notaio, nonché del presidente dell’ente Parco, avvocato Gatta. Qualcuno per fortuna si è fatto vivo: Jerzy Buzek, il presidente del Parlamento europeo ha promesso un interessamento dell’Ue e sulla base di una nostra inchiesta è stata appena depositata un’interrogazione a Strasburgo. Nel frattempo, come è noto alle autorità sanitarie locali e nazionali, nella popolazione della montagna del sole si registra un impennamento di neoplasie maligne e malformazioni nei bambini. Esiste un nesso di causalità con l’evidente inquinamento marino della costa? Qual è il grado effettivo di contaminazione ambientale? Perché in nessun ospedale della Capitanata esiste un registro tumori? Per le autorità è come al solito “tutto a posto”? I parlamentari pugliesi seguiteranno a dormire sonni beati scaldando le agognate poltrone o preferiranno dimettersi e andare a lavorare? Il governatore Vendola, da anni ben informato, ora farà finalmente qualcosa? Il prefetto Nunziante potrebbe adottare qualche provvedimento risolutivo in tempi rapidi prima che qualcuno perda la pazienza dinanzi a tanti morti e malati di cancro? In materia imperversa l’improvvisazione. Legambiente, ad esempio, almeno per l’Adriatico nonostante il transito continuo e ben sponsorizzato di Goletta Verde alle Tremiti e nel Gargano, stranamente non si è resa mai conto del fenomeno, ma ora ha addirittura scopiazzato integralmente lo stralcio di alcune inchieste giornalistiche senza citare la fonte (vedi elenco navi affondate 1979-2001). Il Gargano non è il terzo mondo europeo e tantomeno una discarica.

Gianni Lannes
(da Terra Nostra - http://www.italiaterranostra.it/?p=2536)

Rassegna Stampa 13/01/2010 I - Parco Saurino: percolato fuoriesce dal sito di stoccaggio


Continua a fuoriuscire senza interruzioni il percolato dal sito di stoccaggio di Parco Saurino a Santa Maria la Fossa. Le piogge che hanno colpito in questi giorni la provincia di Caserta ed in particolar modo i paesi del Basso Volturno non hanno solo ingrossato il letto del fiume Volturno, ma sono andate ad intasare anche i contenitori dove il liquido proveniente dai rifiuti viene provvisoriamente stoccato in attesa di essere smaltito. L’abbondanza di acqua e le inadeguate misure di contenimento, unite allo smaltimento (in ritardo) che dovrebbe essere messo in atto dagli organi provinciali e statali competenti, hanno solo peggiorato la situazione determinando l’invasione del percolato nelle campagne circostanti. Ora il rischio è che il materiale trasportato dai canali di scolo possa invadere anche i terreni seminati a frumento situati a ridosso delle aree dove si riversa il materiale inquinante. Amministratori e tecnici del Comune di Santa Maria la Fossa - fra questi l’assessore all’Ambiente Francesco Cepparulo - hanno già allertato l’Arpac, l’agenzia regionale di protezione ambientale che dovrà subito effettuare delle analisi per capire l’effettiva entità del danno provocato finora. A rischio c’è soprattutto il frumento destinato agli allevamenti di animali cui è legata la produzione di latte e derivati. Al momento la gravità della situazione ambientale resta sotto osservazione e intanto, mentre si consuma questo nuovo capitolo, Parco Saurino attende ancora che vengano sbloccati i fondi statali con i quali si dovrà provvedere allo smaltimento del percolato. Ma se a Santa Maria La Fossa, le notizie non sono rassicuranti, in altri centri vicini qualcosa, in termini di risanamento, comincia a muoversi. A Casaluce ad esempio. Il comune della black list il cui sindaco Nazzaro Pagano è stato da subito escluso dall’ipotesi della rimozione per essere stato eletto soltanto qualche mese fa, l’attenzione è concentrata sulla riqualificazione delle periferie. Dopo la rimozione dei rifiuti, effettuata ad opera del Comune, sulla strada provinciale che conduce alla reggia borbonica di Carditello attraversando il canale dei Regi lagni, saranno bonificate anche le discariche abusive presenti in via Lemitone II tratto (al confine con Frignano) e in via Piro Consortile(al confine con Teverola). Il risanamento dei siti, che si estenderà anche a via Frascone, sarà effettuato dalla società Astir spa, che, oltre alla rimozione dei cumuli di rifiuti, dovrà anche prevedere l’installazione di un sistema di videosorveglianza e, al contempo, garantire un adeguato impianto di pubblica illuminazione. Il progetto di bonifica per i siti contaminati, già censiti e caratterizzati senza essere nel tempo mai definitivamente risanati nonostante gli annunci del commissariato di governo, investirà quattro comuni: nel Casertano, oltre a Casaluce, anche Cesa e Capodrise. Solo Marano fra i comuni napoletani rientrati nel programma di interventi che ha richiesto il finanziamento complessivo di tre milioni e seicento mila euro.


Fabio Mencocco, Alessandra Tommasino
(da Il Mattino Caserta, 13 gennaio 2010 in Rassegna Stampa Coordinamento Rifiuti della Campania)

Rassegna Stampa 16/01/2010 I - Termovalorizzatore di Acerra: Impregilo contro il Governo




Neanche un anno fa, nella grande sala del termovalorizzatore, Massimo Ponzellini, gran patron della Impregilo, fu insignito della qualifica di "eroe", elargita da Berlusconi a lui e a tutti coloro che sui rifiuti - spiegò il premier - si sono impegnati e sono sopravvissuti alle indagini dei giudici. Giorno felice, verso la fine di marzo, con l’imprenditoria meneghina schierata ad Acerra per l’apertura dell’impianto. Per Impregilo un vero e proprio riscatto, dopo anni di contestazioni sul contratto e la contesa su 750 milioni sequestrati dalla Procura di Napoli. Ora però il feeling col governo subisce uno stop.
La società che ha costruito l’impianto di Acerra, la Fisia (gruppo Impregilo), non ha gradito molto il dettato del decreto con il quale a fine anno è stata sancita la fine dell’emergenza, ed ha opposto un ricorso sulla base dell’articolo 700 del Codice civile. Due i punti di disaccordo.

Il primo riguarda i crediti che Fisia ritiene ancora di vantare nei confronti del Governo. Sarebbero oltre 300 milioni, di cui 80 derivanti dalla fase in cui era ancora in vigore il vecchio contratto, 200 relativi al pagamento degli stabilimenti, ex Cdr compresi, e altri 50 dai rimborsi spese, sempre sostenuti da Fisia, nella fase post-contrattuale. Crediti che vengono di fatto congelati. Il decreto prevede infatti che la neonata Unità stralcio accerti tutti i debiti e crediti maturati nella gestione commissariale entro il 31 gennaio 2011. Fino a quella data però nessuno potrà intraprendere azioni giudiziarie verso il Commissariato. Inoltre i crediti eventualmente maturati comunque non produrranno interessi né saranno soggetti a rivalutazione monetaria.

La seconda opposizione riguarda invece specificamente la cessione dell’impianto di Acerra. Il decreto prevede che debba esserne ceduta la proprietà entro il 31 dicembre 2011. Destinatari ipotizzati dal decreto sono la Regione Campania, oppure altri enti pubblici, la Protezione civile o anche privati. Il prezzo è quello che risulterà dai parametri di uno studio dell’Enea, e l’Enea stesso lo deve stabilire entro la fine di gennaio.

Punto delicato. Nei giorni precedenti la stesura del decreto era circolata l’ipotesi che il prezzo fosse già oggi definito in quell’atto, da parte del Governo. Si parlava di una cifra fra 350 e 400 milioni. Ma insorse il presidente della Regione Antonio Bassolino, che reclamò l’anomalia di una simile prassi. Obiezione accolta: la versione definitiva del decreto demanda la cosa all’Enea. Ma Fisia ora si oppone a questa sorta di vendita forzata. Tanto più che è accompagnata da altri particolari. Fra questi l’obbligo anche di un suo affitto alla Protezione civile di Guido Bertolaso, per 15 anni, al prezzo di 30 milioni l’anno. Inoltre il prezzo dell’affitto deve essere defalcato dal prezzo finale di vendita e per questo è la stessa Fisia a dover presentare un fideiussione per quelle somme. La società non ci vede chiaro, anzi intravede una serie di legacci che ledono i suoi interessi di impresa privata: e infatti l’iniziativa intrapresa prevede anche la richiesta di adire la Corte di Giustizia europea per il contrasto fra il decreto e la normativa unitaria sul diritto di impresa. Inoltre si chiede l’inibizione del decreto, cioè la non applicabilità delle norme contestate. Ricorso presentato al tribunale di Genova, dove ha sede legale la Fisia, con una prima udienza già fissata il 26 gennaio.


Roberto Fuccillo
(da la Repubblica Napoli, 16 gennaio 2010)

Rassegna Stampa 14/01/2010 I - La Cartofer e i rifiuti tossici








La campagna pubblicitaria martellante su radio e tv private ne dava un'immagine simpatica ed efficiente. Dalle indagini dei Carabinieri del Noe, invece, è emerso che la Cartofer di Arzano (e la Delfran di Caivano, altra società che fa capo alla stessa famiglia), dietro il paravento della rottamazione di veicoli, avevano impiantato un traffico di rifiuti pericolosi che attraversava l'Italia da Sud a Nord.
Ad Arzano gli automezzi venivano schiacciati senza essere prima privati di batterie, dischi dei freni, gomme e marmitte; quindi, ridotti in cubi e ancora pieni di sostanze tossiche, venivano inviati in Veneto e nel Friuli-Venezia Giulia per essere fusi e riutilizzati.
A Caivano, invece, era stato impiantato un mulino nel quale venivano triturati, abusivamente e senza alcuna precauzione, metalli di ogni tipo: bombole di gas e di ossigeno, elettrodomestici, addirittura contenitori di vernice. A rendere più grave tutto questo, il fatto che gli impianti abbiano funzionato per mesi nonostante la revoca dell'autorizzazione per la mancanza del certificato antimafia (nuovamente ottenuto due mesi fa).
Ieri, infine, il blitz: quindici le persone arrestate con le accuse di associazione a delinquere e traffico di rifiuti, di cui sette in carcere e otto ai domiciliari; sei quelle con l'obbligo di dimora. Sono state sequestrate inoltre imprese per un valore di 450 milioni di euro. I provvedimenti sono stati emessi dal gip Maria Gabriella Pepe su richiesta del pm Federico Bisceglia. Il gip ha disposto il carcere per i sei fratelli Del Prete, titolari delle due aziende, e per il direttore tecnico Deho Maselli, ingegnere; tra le persone ai domiciliari, anche un legale, l'avvocato Alessandro Di Pietro, accusato di avere aiutato i Del Prete ad aggirare la legge costituendo società di volta in volta diverse, tutte dedite al traffico di rifiuti. Le indagini sono dei carabinieri del Noe, il nucleo operativo ecologico, coordinati dal Maggiore Giovanni Caturano. Indagini, peraltro, accuratissime: oltre alle intercettazioni telefoniche, sono state realizzate riprese filmate anche aeree, mentre i camion utilizzati per il trasporto delle auto schiacciate sono stati seguiti attraverso l'Italia grazie ad impianti gps. La rottamazione dei veicoli veniva eseguita in maniera sommaria per risparmiare sui costi: eppure, la Cartofer riceveva i contributi statali per ritirare le auto e smaltirle. Analogamente, la Delfran triturava grossolanamente oggetti di ogni tipo. Nelle fornaci del Nord Italia arrivava di tutto e i titolari se ne lamentavano con i fratelli Del Prete, soprattutto con Giovanni, ritenuto dagli investigatori il leader del gruppo. Avvertiva il 25 maggio 2006 uno dei responsabili della Iro, Acciaierie industriali riunite orolesi: «Ruote delle ruspe, bombole e rulli non devono esserci, perché il rischio è enorme... Quella roba lì dev'essere tagliata». Il giorno dopo, altro problema nella lavorazione e altra telefonata, sempre a Giovanni Del Prete: «Mi fai ammazzare la gente,dai!». Il 5 giugno Giovanni parlava con il fratello Giuseppe di un carico di «proler», cioè di ferro triturato proveniente dal mulino: «Bisogna fare tre viaggi di proler per la Valsabbia, per mi devi prendere il meglio che ci sta... che poi tutta a munne... la roba più bruttulilla la mandiamo all'Alfa Acciai». In questo modo, accusano i Magistrati, i fratelli Del Prete erano riusciti a diventare ricchissimi e molto potenti. Infastiditi dai continui controlli del Noe, come si evince dalle intercettazioni, ma certi di superarli senza troppi problemi. Parlando il 19 ottobre 2006 con il titolare della Siderurgica di Udine, dove finivano le auto rottamate alla meglio, così si vantava Giovanni Del Prete: «Perché vogliamo aprire un altro cantiere per dare dimostrazione che siamo ancora più forti di prima e praticamente per metterci Napoli ai nostri piedi... voglio acquistare una pressa, perché vogliamo aprire anche l'altro cantiere di Caivano. Anche lì aprire alla minuta e alla spicciolata, praticamente». C'erano problemi con la normativa antimafia: uno dei fratelli è sposato con una parente dei Moccia di Afragola e per circa tre anni l'autorizzazione a svolgere l'attività di rottamazione è stata revocata. C'erano inoltre problemi legati al piano regolatore di Caivano, che impedivano ai Del Prete di allargarsi quanto avrebbero voluto. Per appianarli, o tentare di appianarli, si cercavano contatti in Prefettura, in Questura, al Comune. I titolari della Cartofer, come si evince dalle telefonate, hanno cercato in tutti i modi di avvicinare funzionari prefettizi e di polizia per evitare la tegola dell'antimafia. Quanto al Comune di Caivano, il Sindaco è stato affrontato a muso duro e minacciato. Riferiva il 9 marzo 2006 Delio Maselli a Giovanni Del Prete: «Io ho detto, non mi faccia arrivare a fare cose che non vogliamo fare, gliel'ho detto proprio. Dammi tempo che domani viene e io ti faccio sapere». Ottimi, invece, i rapporti tra Maselli e un funzionario dell'ufficio tecnico. Proprio i contatti tra l'entourage dei Del Prete e gli appartenenti alla Pubblica Amministrazione intendono ora approfondire gli investigatori.

Titti Beneduce
(da Corriere del Mezzogiorno – NAPOLI del 14 gennaio 2010 in Rassegna Stampa del Coordinamento Regionale Rifiuti della Campania).

Rassegna Stampa 30/11/2009 I - Dopo l'acqua ai privati, il business dei rifiuti


Dopo l' acqua, i rifiuti. La stessa legge che nei giorni scorsi ha impresso un brusco colpo di acceleratore alla privatizzazione dei servizi idrici, scatenando forti polemiche e facendo parlare di guerra per il controllo dell' acqua, ha cambiato anche gli equilibri tra le aziende che si contendono la torta della gestione della spazzatura, un business che vale 7,6 miliardi di euro l' anno, lo 0,47 per cento del Pil. In base alla nuova norma, la quota di capitale pubblico nelle società del settore quotate in Borsa dovrà scendere entro il 2013 sotto il 40 per cento ed entro il 2015 sotto il 30 per cento.I Comuni che possiedono direttamente le società di servizio dovranno invece cedere almeno il 40 per cento del capitale ai privati o appaltare il servizio a gara entro il 31 dicembre 2011. Dunque la mappa delle grandi aziende del settore è destinata a cambiare. Vediamo come partendo dai numeri.
Al momento la quota dei rifiuti raccolti dalle imprese pubbliche è il 59,2 per cento rispetto alla popolazione servita e il 46,1 per cento rispetto al numero dei Comuni interessati. Il 30,7 per cento della popolazione e il 34,8 per cento dei Comuni è affidato a operatori privati. La quota restante (10,1 per cento della popolazione e 19,1 per cento dei Comuni) è gestita direttamente dagli enti locali ed è in costante diminuzione da anni (è scesa del 25 per cento in dieci anni).
Ma quali potrebbero essere le new entry nel settore?
Al momento le società multiservizi leader sono: Hera con 4 milioni di tonnellate anno di rifiuti anno urbani e speciali; A2A, che ha fuso le ex municipalizzate di Brescia, Bergamo e Milano; Enìa, che controlla l' area di Reggio Emilia, Parma e Piacenza; Linea Group, che opera a Mantova, Cremona e Lodi. Poi ci sono le società che si occupano solo di rifiuti (l' ambito operativo coincide con il territorio comunale): Ama a Roma, Asia a Napoli, Amiat a Torino, Amiu a Genova, Quadrifoglio a Firenze. Nei prossimi anni si faranno probabilmente spazio imprese straniere: al mercato italiano sono interessati in Francia Veolia e il gruppo Cnim, in Belgio Electrabel, in Spagna Urbaser, in Germania Remondis (che ha smaltito durante una delle infinite emergenze i rifiuti di Napoli).
«Noi non siamo contrari alla competizione tra pubblico e privato, ma chiediamo regole chiare e un quadro giuridico che permetta di operare con efficienza», afferma Daniele Fortini, presidente di Federambiente, l' associazione italiana dei servizi pubblici di igiene ambientale. «In quasi due terzi del paese le perfomance attuali delle società di gestione non hanno nulla da invidiare a quelle dei migliori competitori europei: dai rifiuti si estraggono materie da riciclare e si recupera energia elettrica e termica. Ma in tanta parte d' Italia, proprio dove le gestioni sono state affidate con gara al mercato, questi livelli non si raggiungono e anzi buona parte delle regioni meridionali deve scontare emergenze, commissariamenti straordinari e spese fuori controllo, mentre l' ombra dei poteri criminali ondeggia tra milioni di tonnellate di ecoballe e di discariche abusive». Il rischio, secondo Fedarambiente, è che non sia chiaro chi fa le gare: i Comuni? gli Ato, cioè i cosiddetti ambiti territoriali ottimali che in Sicilia sono ben 27? E poi cosa va a gara? Tutto il sistema di raccolta dei rifiuti o le varie fasi? Il servizio è diviso in tre momenti: spazzamento, raccolta e smaltimento. Mentre lo smaltimento implica capacità tecnologiche e quindi può alimentare una competizione basata sulla capacità industriale, la battaglia commerciale sulle prime due fasi rischia di giocarsi solo sul costo del lavoro. E, visto che i Comuni faranno con ogni probabilità gare al ribasso, concentrarsi solo sullo spazzamento delle strade potrebbe aprire le porte a microimprese, magari occasionali, non in grado di offrire le garanzie necessarie. Il rischio concreto è che l' Italia si spacchi in due: da una parte le aree in cui i servizi sono pagati meglio e tutti sono in corsa per aggiudicarseli e dall' altra le aree più povere in cui sarà difficile trovare chi garantisce la qualità del servizio. Con la possibilità che invece di risolvere il caso Campania se ne creino di nuovi. Un' altra difficoltà emerge dalla lettura del Green Book, il rapporto annuale che Federambiente presenta oggi: per effetto della crisi in Italia i consumi diminuiscono e quindi rallenta la crescita degli scarti prodotti, ma al tempo stesso aumentano i costi di gestione dei rifiuti urbani. Un aumento causato dal maggior costo di una serie di servizi di maggiore qualità, compresa la raccolta porta a porta. Nel 2007 le città hanno prodotto 32,5 milioni di tonnellate di rifiuti (una crescita del 21 per cento in 9 anni) e solo il 28 per cento è stato raccolto in modo differenziato. Complessivamente, in Italia la produzione di rifiuti pro capite è salita in dieci anni da 472 a 546 chili. Siamo poco sotto la media europea (652 chili pro capite l' anno). La Norvegia è a 824, la Spagna a 588, la Gran Bretagna a 572, la Germania a 564, la Francia a 541, la Turchia a 430, la Repubblica Ceca a 294. Se l' Italia è allineata dal punto di vista delle quantità, si trova sbilanciata per quanto riguarda la capacità di trattamento. La quota di rifiuto urbano che viene trattata in impianti di selezione e compostaggio è passata da 1,4 milioni di tonnellate nel 1999 a 3,2 milioni nel 2007 ma solo grazie al traino delle regioni settentrionali. E a fronte di una media europea di rifiuti pro capite in discarica pari a 195 chili (il 35 per cento del totale), l' Italia sta a 287, cioè oltre il 50 per cento. Peggio di noi Regno Unito, Spagna, Turchia e Cipro (che arriva a 658 chili pro capite l' anno in discarica). Qualche difficoltà anche sul fronte del passaggio dalla tassa alla tariffa: nel 2007 lo avevano già effettuato solo 1.393 Comuni e i nodi da sciogliere, anche dal punto di vista del contenzioso legale, restano parecchi. Infatti nel Green Book la classifica dei Comuni in base al costo dello smaltimento presenta significative oscillazioni. La spesa media per una famiglia di 3 persone che vive in una casa di 80 metri quadrati è di 192,4 euro l' anno. Ma in Campania la cifra arriva a 258 euro, in Sicilia a 239,3, in Sardegna a 225,5. La stessa famiglia paga meno in Molise (89,5 euro l' anno) e in Calabria (118,5 euro). La media dei Comuni in cui si è passati alla tariffa è 187,4 euro l' anno, in quelli rimasti alla tassa si sale a 194,2 euro. Per i negozi, ipotizzando una superficie di 50 metri quadrati, il servizio di nettezza urbana costa in media 391,5 euro l' anno; per un ufficio privato di 100 metri quadrati si sale a 799,4, per un ristorante di 200 metri quadrati si arriva a 4.006,9. I costi maggiori sono nel Lazio, i minori in Molise e in Val d' Aosta.

Antonio Cianciullo
(da la Repubblica-Affari & Finanza, 30 novembre 2009)

Rassegna Stampa 6/11/2009 I - "Le centrali nucleari? Facciamole in caserma".

Doveva servire a snellire la burocrazia militare e portare qualche euro nelle casse dell'esercito con la vendita del logo delle Forze armate ai produttori di magliette e gadget. Invece, Difesa Servizi Spa, la società a capitale pubblico che un disegno di legge del ministro La Russa propone di istituire, potrebbe portare ben altre novità nelle caserme: centrali nucleari e termovalorizzatori. L'allarme è stato lanciato dal segretario nazionale della Funzione Pubblica Cgil, Carlo Podda. La legge, che dovrebbe istituire la società, ancora in discussione, contiene una sorpresa: "La possibilità per Difesa Spa di esercitare attività non connesse ai suoi compiti istituzionali", come dare o prendere in affitto immobili.
Ma c'è di più: a luglio è stata approvata una legge che permetterebbe alla futura società di concedere “siti militari, infrastrutture e beni del demanio militare” per “istallare impianti energetici”. Gli alti gradi dell'esercito pensano che la norma si riferisca ai pannelli solari. Nulla, però, vieterebbe a Difesa Spa, di concedere terreni per la costruzione di nuove centrali nucleari.
Ma perché le caserme dovrebbero ospitare centrali energetiche. La legge spiega che spiega che l'energia prodotta sarebbe usata dalle stesse centrali militari, ma il resto potrà essere venduta. Se il nuovo organismo avesse queste prerogative, gli enti locali difficilmente potrebbero opporsi alla costruzione delle centrali. Anzi, gli eventuali contestatori rischierebbero il carcere qualora portassero la protesta all'interno di un'area militare. E le agenzie per la protezione del territorio potrebbero effettuare controlli solo col consenso dell'esercito.
D'altronde nella caserma di Persano, come ha documentato l'Espresso, sono ancora presenti le balle di rifiuti dell'emergenza napoletana dell'anno scorso e nessun ente ha potuto controllarne la pericolosità. A Difesa Spa basterebbe una delibera del Consiglio di Amministrazione per costruirvi un termovalorizzatore e bruciarle.
Per correre ai ripari, il senatore del Partito democratico, Gian Piero Scanu, ha proposto un'altra legge che permetterebbe al nuovo ente di trattare solo per le fonti rinnovabili. “In questa storia la questione energetica è centrale e spiega perché, con La Russa, ha firmato la proposta anche il ministro dello sviluppo economico Scajola”. Secondo Scanu, “Domani basterebbe una decisione del cda di Difesa spa per seppellire le scorie nella caserma. E nessuno potrebbe protestare”.

Riccardo Bianchi
(da Il Venerdì della Repubblica, 6 novembre 2009)

Rassegna Stampa 26/12/2009 I - Così hanno tradito l'Africa



Il Continente nero pagherà con morti e carestie il compromesso al ribasso raggiunto sul clima a Copenaghen. E alcuni leader africani sono stati complici delle scelte dei grandi. In cambio di cosa? È stato al nono giorno del summit sul clima di Copenaghen che si è deciso di sacrificare l'Africa. La posizione ai negoziati del blocco G-77, che comprende anche Stati africani, era chiara: un aumento nelle temperature medie globali di due gradi Celsius in Africa (i due gradi dell'accordo finale) si traduce in un aumento reale di 3-3,5 gradi. Ciò significa, secondo quanto afferma la Pan African Climate Justice Alliance, che "altri 55 milioni di persone rischiano di andare incontro a una carestia", che "la penuria d'acqua potrebbe colpire tra i 350 e i 600 milioni di persone in più". L'arcivescovo Desmond Tutu definisce la posta in gioco in questi termini: "Incombe su di noi una catastrofe di proporzioni colossali. Porsi come obiettivo globale un aumento di circa due gradi celsius equivale a condannare l'Africa all'incenerimento e a non avere alcuno sviluppo". Eppure, ciò era esattamente quello che il primo ministro etiope Meles Zenawi aveva proposto, allorché aveva fatto tappa a Parigi nel suo viaggio verso Copenaghen: affiancando il presidente Nicolas Sarkozy e affermando di parlare a nome di tutta l'Africa (in qualità oltretutto di capo della delegazione africana incaricata dei negoziati sul clima), aveva illustrato un piano che prevede il tanto paventato aumento di 2 gradi delle temperature e che mette a disposizione dei paesi in via di sviluppo 10 miliardi di dollari l'anno per contribuire a sovvenzionare tutto ciò che è da ricondursi al cambiamento del clima, dalle paratie contro l'innalzamento degli oceani alla cura della malaria alla lotta alla deforestazione. È dunque davvero difficile credere che si tratti del medesimo uomo che soltanto tre mesi fa diceva: "Faremo valere la nostra numerosa delegazione per delegittimare qualsiasi accordo che non sia coerente con le nostre posizioni minime. Se sarà necessario, siamo disposti ad abbandonare i negoziati che dovessero rivelarsi causa di ulteriore rovina per il nostro continente. Non siamo disposti ad accettare un riscaldamento globale superiore al livello minimo evitabile. Prenderemo parte ai prossimi negoziati non come supplici, che umilmente cercano di difendere se stessi, ma come negoziatori che a tutti gli effetti si adoperano a tutela dei propri interessi e delle proprie opinioni". Non sappiamo ancora che cosa abbia ottenuto Zenawi in cambio di questa sua drastica metamorfosi e come sia possibile, nello specifico, passare dalla posizione di chi chiede finanziamenti per 400 miliardi di dollari l'anno (posizione del gruppo africano) a quella di chi si accontenta di appena 10 miliardi di dollari. Nello stesso modo, non sappiamo che cosa sia accaduto di preciso quando il segretario di Stato Hillary Clinton ha incontrato il presidente delle Filippine Gloria Arroyo poche settimane prima del summit, e all'improvviso i più duri negoziatori filippini sono stati allontanati dalla loro delegazione e le Filippine, che avevano chiesto tagli più incisivi alle emissioni da parte del mondo ricco e sviluppato, si sono tutto a un tratto allineate con le posizioni americane. Sappiamo però - per aver assistito di persona a tutto un susseguirsi di clamorosi dietrofront - che le potenze del G8 sono state disposte a fare pressoché di tutto per arrivare a un accordo a Copenaghen. L'urgenza chiaramente non nasce da un ardente desiderio di scongiurare un catastrofico cambiamento climatico, considerato che i negoziatori sanno fin troppo bene che i miseri tagli alle emissioni proposti garantiscono che le temperature aumenteranno di 3,9 gradi "danteschi", per dirla con Bill McKibben (famoso ambientalista americano, ndr.). Matthew Stilwell dell'Institute for Governance and Sustainable Development, uno degli organi di consulenza più influenti del summit, dice che i negoziati non hanno riguardato la possibilità di scongiurare il cambiamento del clima, ma sono stati soltanto una battaglia indiretta per accaparrarsi una risorsa inestimabile: il diritto di avere un cielo. Esiste una quantità limitata di anidride carbonica che è possibile immettere nell'atmosfera. I Paesi ricchi, non volendo ridurre in modo significativo e consistente le loro emissioni, in pratica hanno messo le mani anche sulla parte di cielo già insufficientemente disponibile per il Sud del pianeta. In gioco, osserva Stilwell, c'era nientemeno che "l'importanza di condividere il cielo". L'Europa, prosegue Stilwell, capisce perfettamente quanto ci sia da guadagnare dal carbon trading, perché da anni usa questo meccanismo. I Paesi in via di sviluppo, d'altro canto, non hanno mai dovuto sottostare a restrizioni di sorta nelle loro emissioni di biossido di carbonio, e quindi molti governi non si rendono conto di quanto e di che cosa abbiano da perdere. Contrastare il valore di mercato dell'anidride carbonica - che secondo l'illustre economista britannico Nicholas Stern ammonta a 1.200 miliardi di dollari l'anno - con i miseri 10 miliardi di dollari messi sul tavolo per i paesi in via di sviluppo, dal punto di vista di Stilwell equivale per i Paesi ricchi a cercare di barattare "Manhattan con perline e coperte". E aggiunge: "Stiamo vivendo una fase coloniale: ecco per quale motivo non si è lasciato nulla di intentato per far sì che i capi di Stato convenissero qui per firmare questo accordo. Non vi è alcuna possibilità di tornare indietro. Avete suddiviso le ultime risorse rimaste senza proprietario e le avete assegnate ai ricchi". Da mesi le Ong avevano avvertito che obiettivo del summit di Copenaghen era 'to seal the deal', firmare un accordo. Ma l'accordo partorito, di vecchio stampo, non sarà sufficiente, specialmente perché non risolverà la crisi del clima e potrebbe peggiorare addirittura le cose, aggravando le disparità che esistono già oggi tra Sud e Nord del pianeta e paralizzandole a tempo indefinito. Augustine Njamnshi del Pan African Climate Justice Alliance definisce con parole quanto mai secche la conclusione di contenere l'aumento delle temperature a 2 gradi: "Non potete affermare di proporre una soluzione al cambiamento del clima se questa soluzione comporterà la morte di milioni di africani e se a pagare per il cambiamento del clima saranno i poveri e non i responsabili dell'inquinamento". Stilwell è del parere che questo cattivo accordo "paralizzera l'approccio sbagliato almeno fino al 2020", ovvero ben oltre la scadenza fissata per il picco massimo delle emissioni. E sostiene che sarebbe stato assai più opportuno decidere di non decidere nulla: "Era meglio aspettare sei mesi o anche un anno e arrivare all'accordo giusto, perché la scienza fa progressi, la politica fa progressi, e anche la comprensione della società civile e delle comunità coinvolte fanno progressi e quindi tutti sarebbero stati pronti, fra un po' di tempo, a fare delle pressioni sui leader perché prendessero degli impegni maggiori un un accordo come si deve". All'inizio della Conferenza sul clima dell'Onu di Copenhagen la mera idea di procrastinare le cose sembrava un'eresia ambientale. Ma dati gli scadenti risultati raggiunti col sen di poi sarebbe stato meglio rallentare e fare le cose come vanno fatte. È l'opinione espressa anche dall'arcivescovo Tutu proprio in virtù dello scenario apocalittico che comporta un aumento di due gradi delle temperature in Africa. Per alcuni capi di Stato sarebbe stato un disastro politico, ma per tutti gli altri avrebbe potuto essere l'ultima occasione per scongiurare un vero disastro.

Naomi Klein
(da L'espresso - traduzione di Anna Bissanti)

venerdì 22 gennaio 2010

Rassegna Stampa 20/01/2010 I - Nasce la “Bertolaso Spa”. Era la Protezione civile, sarà la cassa per gli appalti.




Lui dice che serve a “superare la burocrazia e ad operare con efficienza”. Lui è Guido Bertolaso. E il governo di Berlusconi gli dà ragione con un decreto. Le opposizioni, ma non solo, dicono che serve a mettere nelle mani di un solo uomo, un uomo che risponde solo a Berlusconi, la possibilità di spendere in appalti miliardi di euro senza controlli. La chiamano “Bertolaso Spa”. Con il decreto legge, varato la settimana scorsa dal Consiglio dei ministri e adesso in discussione al Senato, la Protezione civile diventerà il più grande ente appaltatore della Repubblica avendo piena libertà e spese illimitate. Così Guido Bertolaso avrà tra le mani miliardi di euro da spendere senza controllo per ogni evento “emergenziale”: dalle calamità naturali ai party di Stato.
In un articolo su “Repubblica” Alberto Statera targa Bertolaso come il nuovo imperatore di tutti gli appalti grazie alla privatizzazione della Protezione civile della nazione che si trasformerà in una Spa.
In questo modo il dottore in medicina, sottosegretario alla presidenza del Consiglio e capo del Dipartimento della Protezione civile, scala la gerarchia dei ministri stilata ufficialmente dal suo mentore Gianni Letta, superando in termini di potere reale non solo Frattini, Maroni e Alfano, i primi tre nella classifica lettiana, ma anche Giulio Tremonti, custode dei cordoni della borsa.
E il campo d’azione di Bertolaso sarà illimitato, perché si parla non solo di frane, incendi e terremoti, ma di qualsiasi “grande evento” sia giudicato degno di un “decreto emergenziale”. E ormai oggi in Italia tutto è emergenza: dal quattrocentesimo anniversario della nascita di San Giuseppe da Copertino, celebrato in provincia di Lecce con l’ordinanza “emergenziale” 3356, al congresso eucaristico nazionale, previsto ad Ancona dal 4 all’11 settembre 2011, di cui Bertolaso è già commissario, per ora con una dote di soli 200 mila euro da spendere per la buona riuscita dell’evento.
Il connubio tra Berlusconi e Bertolaso ha emesso ben 587 “ordinanze emergenziali”, di cui solo una parte riferita a calamità naturali. Il resto a “grandi eventi”, o presunti tali. Nessun organo di controllo sembra essere in grado di dire quanto la coppia B&B è riuscita a spendere negli ultimi anni.
Ci ha provato, scrive ancora Statera, Manuele Bonaccorsi, autore di un dossier intitolato “Potere assoluto – La protezione civile ai tempi di Bertolaso”, appena pubblicato e che la Cgil, che giudica il nuovo decreto sulla protezione civile “improprio e anticostituzionale”, illustrerà sabato prossimo all’Aquila in una manifestazione di protesta dei Comitati dei terremotati contro la “Protezione Civile Spa”.
Tra il 3 dicembre 2001 e il 30 gennaio 2006, si legge nel dossier, la presidenza del Consiglio ha varato 330 ordinanze. Di queste, sono pubblici gli stanziamenti di 75 ordinanze, che valgono circa un miliardo e 490 mila euro. Non si tratta di un campione rappresentativo, ma è un dato che consente una stima. Nei cinque anni, tramite ordinanze della Protezione civile, in spregio alle norme sugli appalti e le assunzioni, sarebbero stati spesi 6,5 miliardi. Se si fa il calcolo su 587 ordinanze della presidenza del Consiglio in meno di nove anni, si arriva a 10,6 miliardi.
Una somma sufficiente – giudicano gli autori del dossier – a costruire un blocco di potere indistruttibile, segreto e libero da qualsiasi regola. Ecco perché in tante interviste rilasciate, l’imperatore Bertolaso, che il centrosinistra considerava uno dei suoi, dichiara che tra tutti i quattordici governi in cui ha “servito”, il Berlusconi quater è «il migliore».
A queste accuse Bertolaso risponde con «sono solo calunnie» confermando che il dipartimento ogni anno «gestisce un miliardo di euro: 850 milioni servono per i muti delle emergenze passate. Gli altri 150 milioni sono destinati al personale, alla lotta agli incendi boschivi e alle attività di previsioni».
Ma chi è Guido Bertolaso? Ne parla Luigi Zanda, oggi vicepresidente dei senatori del Pd, che nel 2000, quando era presidente dell’Agenzia del Gran Giubileo, lo incontrò come vice di Francesco Rutelli, sindaco di Roma e commissario all’evento. «Io lo conoscevo bene – racconta Zanda, che oggi guida in Parlamento le legioni degli oppositori alla “Bertolaso Spa” – Abile nella soluzione dei problemi, aveva un ego smisurato».
Privatizzare la Protezione civile, dice Zanda è «una picconata allo Stato, una sovrapposizione abnorme tra un capo Dipartimento, un direttore generale che dovrebbe ispirarsi all’imparzialità, e un sottosegretario controllore-controllato, cui, per di più, col nuovo decreto, si implementano i poteri». È come se il ministro dell’Interno Maroni fosse anche il capo delle polizia.

(da la Repubblica, 20 gennaio 2010)

Rassegna Stampa 13/07/2009 I - Pianeta psicofarmaci

Troppi psicofarmaci. Prescritti per condizioni che potrebbero essere affrontate diversamente. Spinti dalle industrie farmaceutiche che inventano ogni giorno nuovi malesseri, trasformando in malattie i disagi più comuni, ma anche dall'impazienza di chi non riesce a sostenere la fatica di vivere e pensa di spazzarla via inghiottendo una pillola. Un cortocircuito maledetto che porta a consumare pillole su pillole per ansia, fastidio, malumore, irrequetezza o tristezza. Alimentato da una ricerca psichiatrica totalmente finanziata dalle aziende che, inevitabilmente, sperimentano farmaci. Quando, invece, la risposta al mal di vivere potrebbe essere in trattamenti diversi. Quali? Di fatto nessuno lo sa fino in fondo perché nessuno ha i soldi per cercarli. A dire chiaro e tondo le cose come stanno è un autorevole medico britannico, il più autorevole tra gli psichiatri, Peter Tyrer. Un signore compassato che non ha nulla dello scalmanato rivoluzionario, docente di psichiatria di comunità all'Imperial College di Londra e direttore del 'British Journal of Psychiatry'. Convinto, per dirla con le sue parole, che la ricerca ci dia "una visione parziale delle terapie disponibili per i disturbi psichici. Mentre quello di cui abbiamo bisogno sono studi indipendenti. Che valutino i farmaci senza pregiudizi, e prendano in considerazione anche altre opzioni di trattamento". Tyrer non ha dubbi che l'unica possibilità per normalizzare la smania globale di psicofarmaci sia nella ricerca indipendente, argomento su cui interverrà il 28 settembre a Verona, in occasione della IV Giornata Veronese sull'informazione indipendente sugli psicofarmaci. Per sfidare Big Pharma su due fronti: la tendenza delle aziende ad allargare il mercato trasformando in patologie tratti caratteriali come la timidezza o la malinconia. E una valutazione senza pregiudizi degli strumenti più efficaci per fronteggiare malattie gravi come la depressione o persino la schizofrenia. Che prenda in considerazione gli strumenti non farmacologici, come psicoterapia e interventi nel sociale, la cui validità riceve continue conferme.


A che punto è la ricerca, professore?

"Proprio di recente abbiamo pubblicato uno studio preliminare sull'efficacia della nidoterapia, un approccio che prevede di adeguare l'ambiente alle necessità del paziente, di cambiare le cose che lo circondano, i suoi tempi di vita, i modi di interazione, le persone e le azioni. E non viceversa: se la vita genera difficoltà, chiediamoci se non sia meglio cambiarne degli aspetti piuttosto che intervenire famacologicamente per cambiare il cervello delle persone. Un trattamento di questo genere potrebbe avere un buon rapporto costi benefici: certo, si tratta di ribaltare l'approccio tradizionale a favore di una medicina basata sul paziente: non adeguare il malato all'ambiente, ma l'ambiente alle esigenze di chi soffre. Una strada complessa, ma dobbiamo avere chiaro che calmare un paziente agitato non significa curarlo".

Però la maggior parte degli studi oggi riguarda i farmaci.

"Il problema principale è economico. Senza il supporto delle aziende è difficile avviare studi che possono costare anche 500 mila dollari: il 95 per cento della ricerca farmacologica è finanziata dalle industrie. I finanziamenti autonomi sono difficili da reperire, e le aziende scelgono gli studi che gli interessano, anche se tutti sanno che queste ricerche tendono a dare risultati sbilanciati in loro favore. Non solo: si tratta di condizionamenti spesso invisibili, cui è molto difficile sfuggire. E teniamo presente che quello degli psicofarmaci è un settore particolarmente delicato, perché in psichiatria la diagnosi non è chiara come in medicina. Di fatto, ci sono così tanti farmaci in commercio che è difficile capire quali funzionano davvero, per questo bisogna essere molto prudenti quando viene messa sul mercato una nuova medicina".

Ma come è possibile alterare i risultati di uno studio?

"Ci sono diversi metodi per influenzare i risultati, ad esempio paragonando i nuovi farmaci con altri che danno effetti avversi più seri, oppure non utilizzando le dosi più elevate in modo da minimizzare gli effetti collaterali. Il problema poi è che le aziende finanziano le ricerche che permettono di ampliare le indicazioni per le quali un farmaco viene ritenuto utile. È chiaro che il loro interesse principale è quello di espandere il mercato".

Come?

"Trasformando in patologie situazioni per le quali non è indicato un trattamento farmacologico. Magari basandosi su un ragionamento che oggi è quello dominante, anche presso i medici, ma che è sbagliato: se un farmaco azzera una certa condizione, quella condizione è una malattia. Ma non è così: se un principio attivo, ad esempio, rende le persone meno introverse, questo non fa dell'introversione una malattia. In passato quelli che chiamiamo antipsicotici erano definiti tranquillanti maggiori, e servivano sostanzialmente a tenere calme le persone. Oggi si cerca di trasformare la malinconia in depressione, la timidezza in fobia sociale. Si tratta di 'disturbi' comprensibilmente molto diffusi: le aziende si preoccupano dei loro bilanci e sono ben contente di poter affermare che il 5 per cento della popolazione soffre di fobia sociale. Ma è solo il loro punto di vista".

Dobbiamo pensare che l'intera ricerca farmacologica in psichiatria è vittima di conflitti di interesse?

"La storia recente ne è piena. Il senatore Chuck Grassley dell'Iowa, un politico repubblicano, si è impegnato a investigare la corruzione delle case farmaceutiche e ha svelato una quantità di imbrogli. Un caso recente riguarda uno studio di Robert Robinson sul trattamento con l'antidepressivo excitalopram dei pazienti colpiti da ictus e a rischio di depressione, pubblicato sulla rivista 'Jama': si è scoperto che l'autore aveva tenuto nascosti dei finanziamenti ricevuti dall'azienda produttrice del farmaco. In effetti i dati non erano stati presentati in modo accurato, e sopravvalutavano il trattamento farmacologico rispetto ad altri tipi di terapie".

E nessuno prende provvedimenti contro questi medici?

"Raramente accade. Charles Nemeroff, responsabile del dipartimento di Psichiatria della Emory University, è stato costretto a dimettersi per non aver dichiarato i finanziamenti ricevuti dall'azienda produttrice di un apparecchio per la stimolazione del nervo vago come trattamento della depressione e per altre ricerche".

Il risultato è che non ci si può fidare dei farmaci che troviamo in commercio?

" Le aziende si sforzano di ottenere il massimo dai farmaci prima che vadano fuori brevetto, e la posta in gioco è molto alta. Tanto che possono permettersi di pagare risarcimenti se qualcosa va storto: pensiamo a un farmaco come l'olanzapina, un antipsicotico di nuova generazione che ha provocato un forte contenzioso ed è stato al centro di azioni legali per l'impiego su pazienti anziani, per i quali potrebbe aumentare il rischio di accidenti cerebrovascolari, o per l'impiego non previsto su malati di demenza. Ma che rappresenta comunque un'importante fonte di reddito per l'azienda produttrice in attesa che il brevetto scada nel 2011".

La ricerca delle aziende è tutta da buttare?

"Oggi c'è un crescente scetticismo nei confronti delle sponsorizzazioni farmaceutiche, anche se molta ricerca è di buona qualità, e i ricercatori finanziati dalle aziende spesso cercano di fare del proprio meglio. C'è però un altro problema: a decidere come condurre le ricerche sono il più delle volte le industrie stesse. Che possono stabilire ad esempio quali pazienti verranno selezionati, su quali parametri basare lo studio, quanto durerà. Chi lavora con finanziamenti pubblici, invece, prima di iniziare una ricerca deve dichiarare quali dati analizzerà e come lo farà: in questo modo è molto più difficile manipolare i risultati".

Che soluzioni ci sono?

"Un buon risultato sarebbe quello di ottenere che le aziende pubblichino i dati di cui dispongono anche quando i risultati sono contrari alle aspettative. Il fatto che vengano resi noti solo gli studi che hanno avuto successo distorce le valutazioni sui farmaci. Qualche anno fa, ad esempio, si è scoperto che una serie di studi non pubblicati sugli effetti dei farmaci antidepressivi sui bambini arrivava a conclusioni molto negative sull'efficacia e la sicurezza di queste terapie, che non erano emerse dagli studi pubblicati. Oggi ci sono pressioni perché le aziende mettano a disposizione degli organi regolatori tutti gli studi disponibili. Si stanno anche cominciando a organizzare studi indipendenti, in Inghilterra se ne occupa un'organizzazione pubblica, il Mental Health Research Network. E a costruirli coinvolgendo vari istituti e mettendo a confronto terapie diverse, in modo da avere un risultato per quanto possibile obiettivo. In questo modo si possono analizzare anche problemi che interessano meno alle farmaceutiche".

Si riferisce alla psicoterapia?

"Anche: la psichiatria di comunità ha ampiamente dimostrato che un approccio psicosociale può avere la stessa efficacia dei farmaci. Ma queste terapie non vengono valorizzate e spesso non sono neanche menzionate negli studi. Anche se paradossalmente gli studi che le riguardano danno spesso risultati più obiettivi, proprio perché non sono sottoposti alla pressione delle aziende".

Gli studi su pazienti psichiatrici pongono però problemi etici particolari.

"In certi casi, per esempio nella depressione grave, non è possibile far partecipare i pazienti più gravi a studi che prevedono di confrontare il farmaco con un placebo - studi che vengono richiesti da organismi regolatori come l'Fda americana - perché questo potrebbe aumentare il rischio di suicidi".

Paola Emilia Cicerone
(da L’espresso, 13 luglio 2009)

Rassegna Stampa 15/12/2009 I - Forze armate e privatizzate


Le forze armate italiane smettono di essere gestite dallo Stato e diventano una società per azioni. Uno scherzo? Un golpe? No: è una legge, che diventerà esecutiva nel giro di poche settimane. La rivoluzione è nascosta tra i cavilli della Finanziaria, che marcia veloce a colpi di fiducia soffocando qualunque dibattito parlamentare. Così, in un assordante silenzio, tutte le spese della Difesa diventeranno un affare privato, nelle mani di un consiglio d'amministrazione e di dirigenti scelti soltanto dal ministro in carica, senza controllo del Parlamento, senza trasparenza. La privatizzazione di un intero ministero passa inosservata mentre introduce un principio senza precedenti. Che pochi parlamentari dell'opposizione leggono chiaramente come la prova generale di un disegno molto più ampio: lo smantellamento dello Stato. "Ora si comincia dalla Difesa, poi si potranno applicare le stesse regole alla Sanità, all'Istruzione, alla Giustizia: non saranno più amministrazione pubblica, ma società d'affari", chiosa il senatore pd Gianpiero Scanu.
Stiamo parlando di Difesa Servizi Spa, una creatura fortissimamente voluta da Ignazio La Russa e dal sottosegretario Guido Crosetto: una società per azioni, con le quote interamente in mano al ministero e otto consiglieri d'amministrazione scelti dal ministro, che avrà anche l'ultima parola sulla nomina dei dirigenti. Questa holding potrà spendere ogni anno tra i 3 e i 5 miliardi di euro senza rispondere al Parlamento o ad organismi neutrali. In più si metterà nel portafogli un patrimonio di immobili 'da valorizzare' pari a 4 miliardi. Sono cifre imponenti, un fatturato da multinazionale che passa di colpo dalle regole della pubblica amministrazione a quelle del mondo privato. Ma questa Spa avrà altre prerogative abbastanza singolari. Ed elettrizzanti. Potrà costruire centrali energetiche d'ogni tipo sfuggendo alle autorizzazioni degli enti locali: dal nucleare ai termovalorizzatori, nelle basi e nelle caserme privatizzate sarà possibile piazzare di tutto. Bruciare spazzatura o installare reattori atomici? Signorsì! Segreto militare e interesse economico si sposeranno, cancellando ogni parere delle comunità e ogni ruolo degli enti locali. Comuni, province e regioni resteranno fuori dai reticolati con la scritta 'zona militare', utilizzati in futuro per difendere ricchi business. Infine, la Spa si occuperà di 'sponsorizzazioni'. Altro termine vago. Si useranno caccia, incrociatori e carri armati per fare pubblicità? Qualunque ditta è pronta a investire per comparire sulle ali delle Frecce Tricolori, che finora hanno solo propagandato l'immagine della Nazione. Ma ci saranno consigli per gli acquisti sulle fiancate della nuova portaerei Cavour o sugli stendardi dei reparti che sfilano il 2 giugno in diretta tv?
Lo scippo. Quali saranno i reali poteri della Spa non è chiaro: le regole verranno stabilite da un decreto di La Russa. Perché dopo oltre un anno di dibattiti, il parto è avvenuto con un raid notturno che ha inserito cinque articoletti nella Finanziaria. "In diciotto mesi la maggioranza non ha mai voluto confrontarsi. Noi abbiamo tentato il dialogo fino all'ultimo, loro hanno fatto un blitz per imporre la riforma", spiega Rosa Villecco Calipari, capogruppo Pd in commissione Difesa: "I tagli alla Difesa sono un dato oggettivo, dovevano essere la premessa per cercare punti di convergenza. La tutela dello Stato non può avere differenze politiche, invece la destra ha tenuto una posizione di scontro fino a questo scippo inserito nella Finanziaria".
Non si capisce nemmeno quanti soldi verranno manovrati dalla holding. Difesa Servizi gestirà tutte le forniture tranne gli armamenti, che rimarranno nelle competenze degli Stati maggiori. Ma cosa si intende per armamenti? Di sicuro cannoni, missili, caccia e incrociatori. E gli elicotteri? E i camion? E i radar e i sistemi elettronici? Quest'ultima voce ormai rappresenta la fetta più consistente dei bilanci, perché anche il singolo paracadutista si porta addosso una serie di congegni costosissimi. La definizione di questo confine permetterà anche di capire se questa privatizzazione può configurare un futuro ancora più inquietante: una sorta di duopolio bellico. Finmeccanica, holding a controllo statale che ingaggia legioni di ex generali, oggi vende circa il 60 per cento dei sistemi delle forze armate. E a comprarli sarà un'altra spa: due entità alimentate con soldi pubblici che fanno affari privati. Con burattinai politici che ne scelgono gli amministratori. All'orizzonte sembra incarnarsi un mostro a due teste che resuscita gli slogan degli anni Settanta. Ricordate? 'L'imperialismo del complesso industriale-militare'. Un fantasma che improvvisamente si materializza nell'opera del governo Berlusconi.
Gli immobili. Questa Finanziaria in realtà realizza un altro dei sogni rivoluzionari: l'assalto alle caserme. È una corsa agli immobili della Difesa per fare cassa, sotto la protezione di una cortina fumogena. La vera battaglia è quella per espugnare un patrimonio sterminato: edifici che valgono oro nel centro di Roma, Milano, Bologna, Firenze, Torino, Venezia. Un'altra catena di fortezze, poligoni, torri e isole in località di grande fascino che va dalle Alpi alla Sicilia. Da dieci anni si cerca di trovare acquirenti, con scarsi risultati: dei 345 beni ex militari messi all'asta dal governo Prodi, il Demanio è riuscito a piazzarne solo otto. Adesso, dopo un lungo braccio di ferro tra La Russa e Tremonti, si sta per scatenare l'attacco finale. Con una sola certezza: i militari verranno sconfitti, mentre sono molti a pensare che a vincere sarà solo la speculazione. All'inizio Difesa Servizi doveva occuparsi anche della vendita degli edifici: la nascente spa a giugno si è presentata alla Borsa immobiliare di Cannes con tanto di brochure per magnificare il suo catalogo. Qualche perla? L'isola di Palmaria, di fronte a Portovenere, gioiello del Golfo dei Poeti affacciato sulle scogliere delle Cinque Terre. L'arsenale di Venezia, con ampi volumi e architetture suggestive, e un castello circondato dalla Laguna. La roccaforte nell'angolo più bello di Siracusa, pronta a diventare albergo e yacht club. La Macao, un complesso gigantesco con tanto di eliporto nel cuore di Roma, palazzi a Prati e ai piedi dei Parioli. Aree senza prezzo in via Monti incastonate nel centro di Milano. Ma il dicastero di Tremonti ha puntato i piedi: proprietà e vendita restano al Tesoro, che le affiderà a società esterne. Con un doppio benefit, secondo le valutazioni del Pd, per renderle ancora più appetibili. Chi compra, potrà aumentare la cubatura di un terzo. E avrà bisogno solo del permesso del Comune: Provincia e Regione vengono tagliate fuori, aprendo la strada a progetti lampo. Questo banchetto prevede che metà dell'incasso vada allo Stato; ai municipi andrà dal 20 al 30 per cento; il resto ai militari. Difesa Servizi però intanto può 'valorizzare' i beni. Come? Non viene precisato. In attesa della cessione, potrà forse affittarli o darli in concessione come alberghi, uffici o parcheggi.
Intanto però gli appetiti si stanno scatenando. E fette della torta finiscono in pasto alle amministrazioni amiche. Con giochi di finanza creativa. A Gianni Alemanno per Roma Capitale sono state concesse caserme per oltre mezzo miliardo di euro. O meglio, il loro valore cash: il Tesoro anticiperà i quattrini, da recuperare con la vendita degli scrigni di viale Angelico, Castro Pretorio, via Guido Reni e di un paio di fortezze ottocentesche ormai inglobate dalla metropoli. Qualcosa di simile potrebbe essere regalato a Letizia Moratti, per lenire il vuoto nelle casse dell'Expo: un bel pacco dono di camerate e magazzini con vista sul Duomo. "Così le logiche diventano altre: non c'è più tutela del bene pubblico ma l'esternalizzare fondi e beni pubblici attraverso norme privatistiche", dichiara Rosa Calipari Villecco, sottolineando l'assenza di magistrati della Corte dei conti o altre figure di garanzia nella nuova spa. Un anno fa i militari avevano manifestato insofferenza per questa disfatta edizilia. Il capo di Stato maggiore Vincenzo Camporini aveva fatto presente che era stato ceduto un tesoro da un miliardo e mezzo di euro senza "adeguato contraccambio". Oggi, come spiega l'onorevole Calipari, "non si sa nemmeno tra quanti anni le forze armate riceveranno i profitti delle vendite". Eppure i generali tacciono. Una volta ai soldati veniva insegnato 'Credere, obbedire, combattere'; adesso il motto della Difesa privatizzata è 'economicità, efficienza, produttività'. La regola dell'obbedienza è rimasta però salda. E con i tagli al bilancio imposti da Tremonti - in un trennio oltre 2,5 miliardi in meno - anche gli spiccioli della nuova holding diventano vitali per tirare avanti e garantire l'efficienza di missioni ad alto rischio, Afghanistan in testa.
Business con logo. Di sicuro, Difesa Servizi Spa sfrutterà le royalties sui marchi delle forze armate. Un business ghiotto. Il brand di maggiore successo è quello dell'Aeronautica. Felpe, t-shirt, giubbotti e persino caschi con il simbolo delle Frecce Tricolori spopolano con un mercato che non conosce distinzioni d'età e di orientamento politico. Anche l'Esercito si è mosso sulla scia: sono stati aperti persino negozi monomarca, con zaini e tute che sfoggiano i simboli dei corpi d'élite. Finora gli Stati maggiori barattavano l'uso degli stemmi con compensazioni in servizi: restauri di caserme, costruzione di palestre. D'ora in poi, invece, i loghi saranno venduti a vantaggio della Spa. Questo è l'unico punto chiaro della legge, che introduce sanzioni per le mimetiche senza licenza commerciale: anche 5 mila euro di multa. "La questione delle sponsorizzazioni è una foglia di fico per coprire altre vergogne. Tanto più che alla difesa vanno solo briciole", taglia corto il senatore Scanu. E trasformare il prestigio delle bandiere in denaro, però, non richiedeva la privatizzazione. La Marina ha appena pubblicato sui giornali un bando per mettere all'asta lo sfruttamento della sua insegna: si parte da 150 mila euro l'anno. Con molta trasparenza e senza foraggiare il cda scelto dal ministro di turno.

Gianluca Di Feo
(da L’espresso, 15 dicembre 2009)