«Nazionalità è per noi unità: unità viva, libera e potente come Stato. E perché noi vogliamo questa unità come libero Stato?
Perché noi sappiamo che solo nella unità come libero Stato possono spiegarsi liberamente tutte le potenze della nostra vita;
solo in quello noi possiamo essere e saperci veramente noi». (Bertrando Spaventa)


giovedì 6 agosto 2009

Rassegna Stampa - Quaderni della Svimez

“Le contraddizioni del partenariato pubblico-privato nei servizi pubblici locali: mega inceneritori privati e raccolta differenziata nel sistema pubblico dello smaltimento dei rifiuti” di Francesca Stroffolini*


La gestione dello smaltimento dei rifiuti in Campania: un’emergenza voluta

Dalla descrizione che i diversi saggi contenuti nel n. 2/2008 della “Rivista giuridica del Mezzogiorno” fanno delle politiche adottate per la gestione dello smaltimento dei rifiuti in Campania, emerge un quadro di emergenza continua, conflittualità e sovrapposizione di livelli istituzionali, legislativi e penali che configura la crisi dei rifiuti in Campania come una vera e propria crisi istituzionale.
Tuttavia, la contraddittorietà e la confusione delle politiche seguite sono solo apparenti. Le scelte compiute negli ultimi quindici anni, infatti, esprimono due tendenze di fondo. La prima è una chiara predisposizione verso un modello di gestione dei rifiuti basato sulla centralità dell’impiantistica finalizzata al recupero energetico dissipativo (inceneritori ed impianti CDR) e quindi sulla necessità continua di discariche per lo smaltimento dei rifiuti non inceneriti, piuttosto che sullo sviluppo di un modello caratterizzato dal recupero dei rifiuti attraverso un processo di raccolta differenziata, compostaggio e riciclaggio.
La seconda tendenza è la chiara volontà di generare una situazione d’emergenza con la conseguente adozione di una decretazione d’urgenza al fine di favorire interessi economici privati sottratti al controllo democratico. Tali tendenze emergono chiaramente dalle scelte compiute successivamente al 1998, in violazione dell’ordinanza emessa in quell’anno dall’allora ministro degli Interni Giorgio Napolitano1. Tale ordinanza prescriveva il raggiungimento del della raccolta differenziata entro il 2000; la realizzazione entro l’anno di impianti di selezione e trattamento della frazione secca e umida del rifiuto indifferenziato e entro il 2000 di due inceneritori predisposti per il trattamento del solo combustibile da rifiuti (CDR). Per evitare indebiti accumuli di CDR fino alla realizzazione degli impianti, lo stesso doveva essere bruciato in altri impianti anche fuori della Regione e, per non pregiudicare la raccolta differenziata, il CDR non doveva eccedere la metà dei rifiuti complessivamente prodotta in Campania. L’elettricità prodotta dagli inceneritori avrebbe goduto degli incentivi CIP 6, cioè di un prezzo di cessione dell’elettricità generata con i rifiuti quattro vo1te superiore al costo di produzione di un ordinario impianto elettrico.
Questa ordinanza è stata sistematicamente violata negli anni successivi a partire dal bando di gara indetto dall’allora Commissario straordinario per i rifiuti Rastrelli, che veniva dimensionato per il trattamento di tutti i rifiuti prodotti dalla Regione e non solo della parte residua della raccolta differenziata, non prevedeva impianti di selezione e compostaggio e affida all’impresa privata il compito di scegliere i siti dove localizzare l’inceneritore. Questa scelta a favore di politiche incentrate sugli inceneritori è stata confermata dalla gestione Bassolino del Commissariato straordinario, durante la quale vennero affidate al gruppo Fisia-Impregilo, la cui offerta verrà poi giudicata tecnicamente inadeguata, la costruzione dell’impianto e la gestione dei rifiuti, inserendo una clausola che di fatto scoraggiava la raccolta differenziata in quanto imponeva ai comuni di pagare la stessa tariffa a chi gestiva gli impianti indipendentemente dal fatto che facessero o meno la raccolta differenziata. Per spiegare come la situazione d emergenza sia stata volutamente generata, bisogna far riferimento alla violazione di altre due clausole dell’ordinanza del 1998: quella che obbligava l’appaltatore a bruciare i rifiuti combustibili in altri impianti fino al completamento dell’inceneritore e quella che limitava il materiale da bruciare alla metà dei rifiuti prodotti in Regione.
Queste violazioni hanno prodotto due conseguenze. Da un lato la conseguente formazione di ecoballe ha consentito l’utilizzo di aree di stoccaggio, di proprietà di gruppi criminali, che, con il tardare della realizzazione dell’inceneritore, sono diventate discariche prive di qualsiasi presidio e controllo ambientale. Dall’altro lato, il funzionamento degli impianti di CDR al di sopra delle proprie capacita, voluto dai gestori degli impianti per produrre remunerative ecoballe, ha comportato la loro messa fuori uso con il conseguente ulteriore accumulo di rifiuti e produzione di ecoballe. Il ricorso alla decretazione d’urgenza, giustificato ogni volta come rimedio inevitabile alla situazione d’emergenza, ha ulteriormente contribuito a rafforzare una scelta a favore di una politica incentrata sugli inceneritori e sottratta a qualunque controllo democratico.
A tal proposito vorrei richiamare il decreto Berlusconi del maggio 2008, l’ultimo in ordine temporale, che, oltre a prevedere la costruzione di quattro inceneritori, ha attribuito al Ministro della Protezione Civile poteri straordinari, quali quelli di approvare progetti con potenziale rischio ambientale, di definire i siti e gli impianti come aree di interesse strategico nazionale con la conseguente militarizzazione del territorio giustificata dalla necessità di bloccare qualunque attività della popolazione che possa interferire con l’attivazione e il funzionamento degli impianti.
Diverse sono le argomentazioni apportate, nel dibattito pubblico, contro l’adozione di una gestione dello smaltimento dei rifiuti basata sull’impiantistica degli inceneritori e a favore di una politica orientata al loro riciclaggio e riuso. Esse possono essere così sintetizzate.
I costi di costruzione, gestione e manutenzione degli inceneritori sono elevatissimi. Il rendimento della cosiddetta valorizzazione del rifiuto, e cioè la quantità energetica ricavabile dal processo di combustione dei rifiuti è di molto inferiore al rendimento di qualsiasi centrale elettrica tradizionale, ed è incongruamente integrato economicamente con finanziamenti statali. Il sistema non è efficiente perché solo il 70% dei rifiuti è eliminato generando scorie tossiche, in misura pari al 30% dei rifiuti che richiedono l’apertura di discariche, dove devono essere stoccate con costi ambientali elevatissimi. La combustione inoltre comporta i emissione di sostanze inquinanti il cui impatto non e misurabile con certezza Il loro funzionamento richiede una produzione elevata e costante di rifiuti che, quindi, frena lo sviluppo di forme alternative di smaltimento e l’innovazione tecnologica per processi produttivi a basso consumo energetico e per cicli di lavorazione puliti. Questa politica porta ad una militarizzazione del territorio e ad un’esclusione del controllo dei cittadini.
Al contrario, la politica di smaltimento dei rifiuti orientata al ciclo di raccolta differenziata, selezione dei rifiuti, compostaggio, riciclo e riuso risponde ad una strategia di contenimento dei costi nel breve e nel lungo periodo, ad un modello sostenibile di sviluppo che rispetta il territorio e coinvolge, responsabilizzandoli, i cittadini. Infatti, tale politica comporta costi di investimento iniziali e di manutenzione degli impianti di selezione e degli impianti di compostaggio molto più contenuti, non richiede una quantità costante di rifiuti per funzionare, non rilascia scorie né richiede l’aperture di discariche, ottimizza l’impiego di risorse poiché il riciclaggio comporta un ritorno economico del 45% mentre l’inceneritore del 9%, incentiva l’innovazione tecnologica per processi a basso consumo energetico e per cicli puliti di lavorazione, educa alla cura alla, selezione finalizzata al riciclaggio alla diminuzione della quantità di rifiuti prodotta. Questa è, d’altro canto, anche l’indicazione dell’Unione Europea che non solo ha dichiarato ingiustificabile l’utilizzo del CIP 6, ma ha consigliato, nella Direttiva 2006, artt 5 e 6 la, promozione di tecnologie tese al recupero e riutilizzo dei rifiuti e l’adozione di tecnologie dirette a produrre beni riciclabili e a ridurre la produzione di rifiuti.
L’oggetto principale di questo scritto consiste nell’analizzare criticamente la scelta di un modello di gestione dei rifiuti basato sull’impiantistica degli inceneritori, con argomentazioni diverse da quelle portate nel dibattito pubblico. L’intento è quello di evidenziare come i ben noti rischi sociali ed ambientali connessi a questo modello sono enormemente esacerbati dalla necessità, derivante dall’elevatissimo costo di costruzione e dalla complessità tecnologica degli inceneritori, di far ricorso a contratti di partenariato pubblico-privato che attribuiscono la costruzione la gestione e talvolta la proprietà degli impianti ad imprese private per periodi pluridecennali. Per sviluppare questa tesi si discuteranno, nel paragrafo successivo, le problematiche connesse alla diffusione. dell’istituto del partenariato pubblico-privato nella produzione ed offerta di servizi di pubblica utilità.

Il Partenariato pubblico-privato nei servizi di pubblica utilità

Negli ultimi anni si è assistito ad una progressiva diffusione di forme di cooperazione pubblico-privato, denominate partenariato pubblico-privato (public-private partnership) nella costruzione di infrastrutture e nella gestione di servizi in settori tradizionalmente caratterizzati dalla presenza dell’intervento pubblico o in forma diretta o attraverso la regolamentazione dei prezzi e la fissazione di obiettivi socialmente rilevanti. Si tratta di settori in cui l’intervento pubblico è reso necessario, secondo la teoria economica, dalle caratteristiche tecnologiche di produzione (per esempio i monopoli naturali caratterizzanti le industrie a rete); dalla particolare natura dei servizi di pubblica utilità, il cui valore sociale è superiore a quello privato o perché si tratta di servizi necessari, oppure perché danno luogo ad effetti esterni positivi (esternalità) non riflessi nei prezzi di mercato; dalla presenza di asimmetrie informative relative alle variabili di mercato (tecnologia o domanda). La produzione e la fornitura privata di questi servizi, non regolamentata dall’intervento pubblico, non potrebbe garantire il raggiungimento di obiettivi, sia quantitativi che qualitativi, socialmente accettabili.
La partecipazione del privato nella gestione dei servizi di pubblica utilità è presente da lungo tempo attraverso l’istituto della ‘concessione’ con il quale il pubblico delega ad un’impresa privata (o consorzio di imprese private), selezionata mediante gara ad evidenza pubblica, la realizzazione di un’opera specificandone precisamente la tecnologia da utilizzare e le caratteristiche, acquista l’infrastruttura una volta realizzata ed eventualmente ne delega la gestione e l’offerta del servizio ad un’altra impresa privata. In questo caso la proprietà dell’infrastruttura rimane pub1ica e solo il possesso è trasferito all’impresa privata cui è delegata l’offerta del servizio.
Il nuovo istituto del partenariato pubblico-privato, nella molteplicità delle sue forme, si differenzia da quello tradizionale della concessione principalmente per i seguenti aspetti. Una prima distinzione riguarda il fatto che nei contratti di partenariato pubblico-privato, il pubblico può indicare solo il progetto (ospedale, scuola, prigione, ecc.) o talvolta solo il bisogno che deve essere soddisfatto (per esempio, un servizio per anziani, malati, ecc.), delegando la progettazione, la realizzazione, la gestione e il finanziamento dell’opera, in tutto o in parte, all’impresa privata (o consorzio di imprese private) selezionata mediante bando di gara indetto dal pubblico (Pubblica Amministrazione Centrale o Ente locale nel caso di servizi pubblici locali).
Una seconda distinzione riguarda il finanziamento del costo dell’infrastruttura, usualmente molto elevato, che può realizzarsi in tre forme diverse: finanziamento attraverso ricavi da utenza, nel caso di servizi vendibili agli utenti (servizio idrico, autostrade, ecc.); finanziamento attraverso contributi statali, nel caso l’impresa privata fornisca servizi direttamente alla Pubblica Amministrazione (ospedali, scuole, carceri, smaltimento rifiuti); o finanziamento che richiede una componente di contribuzione pubblica nel caso di servizi i cui ricavi non sono sufficienti a coprire il costo iniziale dell’investimento, ma che generano benefici sociali superiori a quelli privati. Quale che sia la modalità di finanziamento, la durata del contratto deve essere fissata in modo da generare introiti in grado di coprire integralmente il costo iniziale dell’investimento. Si tratta quindi di contratti di durata pluridecennale (25-30 anni).
Un’altra e, a mio avviso, più importante caratteristica distintiva dell’istituto del partenariato, in alcune delle sue modalità di realizzazione, rispetto a quello della concessione, riguarda il trasferimento non solo del possesso, ma, spesso, anche della proprietà dell’infrastruttura all’impresa privata per tutto il periodo contrattuale. In questo caso il pubblico non acquista l’infrastruttura, che rimane nelle mani dell’impresa privata, ma direttamente i servizi, remunerando l’impresa con pagamenti che possono essere commisurati all’ammontare dei servizi venduti o in somma fissa. Si tratta di una forma effettiva di privatizzazione, sia pure transitoria per l’obbligo dell’impresa privata di rivendere, o semplicemente restituire, l’infrastruttura al settore pubblico allo scadere del contratto. L’argomentazione utilizzata inizialmente per giustificare il trasferimento di proprietà era che esso consentiva di non contabilizzare l’investimento nei conti pubblici dell’ente appaltatore2. È tuttavia evidente che si tratta di un’operazione contabile che non ha rilevanti effetti economici. Infatti, poiché la costruzione dell’infrastruttura è accompagnata o dall’obbligo del governo di acquistare il flusso di servizi o dalla rinuncia ai ricavi da utenza, l’impatto sulle finanze è lo stesso.
Altre sono quindi le motivazioni economiche addotte a sostegno della crescente diffusione di queste modalità di realizzazione del partenariato e riguardano la rilevanza sociale dell’assetto proprietario in termini di efficienza economica ed allocativa. A questo proposito l’osservazione fondamentale da cui partire è che, nell’ipotesi irrealistica di assenza di incertezza e di asimmetria informativa tra diversi agenti economici (in questo caso tra il pubblico e il privato), l’assetto economico e giuridico della fornitura del servizio non avrebbe alcuna rilevanza. Infatti, in tale contesto, il regolatore pubblico (che può coincidere con l’Ente locale o essere invece un’Autorità indipendente nazionale o locale) fisserebbe prezzi/contributi tali da garantire esattamente la copertura del costo minimo di costruzione e gestione dell’infrastruttura corrispondente alla tecnologia utilizzata, assicurando efficienza economica e profitti nulli. Inoltre, l’assenza di incertezza e la possibilità di monitorare il comportamento dell’impresa, sia essa pubblica o privata, consentirebbero al regolatore di impone ad essa il raggiungimento degli obiettivi sociali desiderati, perché potrebbe dimostrare la responsabilità dell’impresa nel caso di non raggiungimento degli stessi.
Tuttavia, è realistico riconoscere che, indipendentemente da quanto sia accurata e tecnicamente supportata l’azione del regolatore pubblico, la sua informazione riguardo le caratteristiche tecnologiche o della domanda non può mai essere accurata come quella dell’impresa e questo è tanto più vero in presenza delle tecnologie complesse che caratterizzano solitamente i progetti oggetto del contratto di partenariato3. L’impresa può quindi sfruttare strategicamente questo vantaggio informativo per ottenere prezzi e/o contributi superiori a quelli che un comportamento efficiente richiederebbe, realizzando elevati profitti. Un altro esempio di asimmetria informativa riguarda la non osservabilità da parte del regolatore pubblico delle attività realizzate dall’impresa per garantire il raggiungimento degli obiettivi fissati nel contratto. Ciò comporta che, nel caso di incrementi di costi e di ritardi nei tempi di realizzazione dell’opera rispetto a quanto stabilito nel contratto, il regolatore pubblico non può sanzionare l’impresa perché non è in grado di verificare e dimostrare legalmente se l’incremento di costi sia dovuto ad eventi esterni (difficoltà non previste al momento della stipula del contratto dovute, per esempio, a caratteristiche morfologiche del territorio dove è ubicata l’infrastruttura), oppure al comportamento dell’impresa.
Perché non è possibile risolvere i problemi di asimmetria informativa mediante il ricorso a regole (scritte negli appalti, nelle convenzioni) ed a controlli da parte di soggetti terzi (esperti, giudici)? Le ragioni sono molteplici e possono essere così sintetizzate: impossibilità di prevedere l’evoluzione delle variabili economiche e quindi di fissare gli obiettivi socialmente rilevanti in ogni possibile evenienza futura; difficoltà di misurare i parametri economici (la qualità, per esempio), con indicatori unanimemente condivisi; difficoltà di specificare in modo non ambiguo le clausole al momento della stesura del contratto.
L’impossibilità di scrivere contratti ‘completi’ è la ragione fondamentale che rende socialmente rilevante l’assetto economico-giuridico dell’istituto del partenariato.
In un contesto caratterizzato da asimmetria informativa ed incertezza, il ricorso, nei servizi di pubblica utilità, a forme contrattuali di partenariato che attribuiscono al privato la progettazione, realizzazione, gestione e finanziamento dell’infrastruttura necessaria per la fornitura di un servizio (servizio idrico, smalti- mento dei rifiuti, ecc.), nonché la proprietà per la durata del contratto, è giustificato dai suoi fautori con il verificarsi delle seguenti condizioni:
1) ingenti costi di investimento ed indisponibilità di fondi pubblici adeguati a coprire il fabbisogno finanziario per la costruzione del progetto;
2) elevata complessità degli aspetti tecnici del progetto sia nella fase della costruzione che della gestione;
3) possibilità di sfruttare le potenziali abilità dei privati nel realizzare innovazioni e risparmi di costo;
4) possibilità di trasferire al privato, in parte o in tutto, i rischi derivanti da incertezza sull’andamento futuro delle variabili di mercato (variazioni di costo e di domanda).
Nel prosieguo intendo discutere due delle argomentazioni portate frequentemente a sostegno del ricorso alle sopra citate forme di partenariato. La prima si basa sulla convinzione che il trasferimento della proprietà dell’infrastruttura al privato sia di per sé garanzia di maggiore efficienza e quindi di vantaggi per i consumatori in termini di minori tariffe. La seconda fa riferimento ai vantaggi sociali che deriverebbero dal trasferimento al privato dei rischi connessi alla realizzazione e gestione del progetto.
Per comprendere la prima argomentazione bisogna partire dall’osservazione che, in un contesto di incertezza e di asimmetria informativa, 1a proprietà attribuisce il controllo del capitale fisico e quindi il potere di decidere la realizzazione di qualsiasi investimento e la possibilità di appropriarsi interamente dei benefici risu1tanti. Ne consegue, secondo i sostenitori della temporanea privatizzazione, che attribuire la proprietà all’impresa che deve realizzare gli investimenti aumenta gli incentivi ad intraprendere tutte quelle attività innovative che comportano risparmi di costo, in quanto consente di appropriarsi di tutti i profitti che ne conseguono. Viceversa, la proprietà pubblica, costringendo l’impresa privata a richiedere l’approvazione dell’Ente pubblico per qualsiasi attività di investimento e a ripartire con esso i profitti risultanti, indebolirebbe enormemente gli incentivi ad intraprendere attività innovative con conseguente danno per la collettività.
La critica a questa tesi poggia su tre argomenti.
La prima osservazione è che la possibilità di sfruttare le abilità dei privati nel realizzare innovazioni richiede un contesto istituzionale affidabile e tecnicamente preparato, in grado sia di garantire trasparenza nelle procedure di gara al fine di favorire una reale concorrenza, sia di specificare i termini del contratto in modo da garantire la selezione dell’offerta più vantaggiosa per la collettività. Molte esperienze di affidamento di servizi pubblici locali (servizio idrico e smaltimento dei rifiuti), sia in Italia che all’estero (si pensi all’esperienza fallimentare dell’affidamento del servizio idrico da parte del comune di Parigi ai privati che ha portato ad una sua municipalizzazione), sollevano molti dubbi sulla reale capacità degli Enti locali di definire condizioni contrattuali che non sacrifichino gli interessi collettivi a favore di quelli privati, eventualità questa che è da imputare non solo a fenomeni di cattura politica o di collusione, ma anche alla forza contrattuale delle imprese private derivante dalla complessità tecnologica del progetto e dalla rilevanza sociale del servizio. Questi aspetti, come vedremo, influiscono anche sulla prosecuzione del contratto.
La seconda osservazione intende mettere in discussione la tesi che la proprietà di per sé assicuri l’efficienza. Infatti, in presenza di asimmetria informativa, l’efficienza nella produzione e gestione di servizi socialmente rilevanti dipende anche dalla modalità di fissazione dei prezzi o contributi) regolamentati che non solo influenza gli incentivi dell’impresa privata a realizzare risparmi di costo, ma determina anche quanta parte di questi anni si traduce in vantaggi per la collettività.
È intuitivamente comprensibile, infatti, che nel caso in cui il regolatore non conosca quale è il costo minimo che la tecnologia dell’impresa consente di realizzare, l’unico modo per indurla a ridurre i costi è garantirle di realizzare un profitto positivo; in particolare l’incentivo a minimizzare i costi è massimo quando la regola di prezzo fissata dal regolatore è tale che ogni riduzione di costo si traduce interamente in un aumento del profitto. È questo il caso del meccanismo di regolamentazione del price cap che fissa un prezzo massimo (contributo massimo) a cui l’impresa può vendere il servizio, che non varia, almeno per un intervallo di tempo, al variare dei costi. In tal caso qualsiasi riduzione di costo, non modificando il prezzo (contributo), si traduce esclusivamente in profitto per l’impresa senza alcun beneficio per i consumatori. Ma se il prezzo (contributo) è indipendente dai costi, il profitto aumenta anche nel caso in cui la riduzione di costo derivi da fattori esterni non dipendenti dal comportamento dell’impresa: in tal modo il profitto si converte in pura rendita. L’unico modo per ridurre tale profitto-rendita è utilizzare una regola che stabilisca un più stretto legame tra prezzo (contributo) e costi, per cui una riduzione di costo si traduce, in parte, in incremento del profitto e, in parte, in riduzione del prezzo regolamentato (contributo) a vantaggio della collettività. È intuitivo comprendere come questa regola di prezzo riduca l’incentivo dell’impresa a minimizzare i costi.
L’asimmetria informativa genera quindi un trade-off tra inefficienza economica e profitto-rendita; maggiore è l’incentivo che si vuole dare all’impresa per minimizzare i costi, maggiore è il profitto-rendita che bisogna concedere all’impresa e quindi minori sono i vantaggi ottenibili dalla collettività da eventuali riduzioni di costi.
L’ultima osservazione riguarda la natura delle attività che il trasferimento della proprietà all’impresa privata favorirebbe. Come argomentato precedentemente, il trasferimento della proprietà all’impresa privata aumenta gli incentivi a minimizzare i costi perché consente di appropriarsi interamente dei profitti. Tuttavia, proprio il perseguimento del profitto a breve termine induce l’impresa a non tener conto degli effetti negativi che attività finalizzate alla riduzione dei costi possono avere sulla qualità dei servizi o sul rispetto degli standard ambientali e a non realizzare quegli investimenti che non sono profittevoli nel breve periodo, ma che sono socialmente desiderabili, come attività di manutenzione e miglioramento dell’infrastruttura o sviluppo di adeguati sistemi di controllo che limitino i danni ambientali Al contrario, il mantenimento del1a proprietà pubblica, costringendo il gestore del servizio ad una negoziazione per ogni attività di investimento, limiterà quelle attività finalizzate al risparmio di costi che generano esternalità negative e promuoverà, attraverso appropriato compenso, quegli investimenti socialmente desiderabili.
Tale argomentazione evidenzia che contratti di partenariato con trasferimento di proprietà non sono desiderabili in quei settori socialmente rilevanti dove la qualità del servizio e il rispetto degli standard ambientali sono la priorità e dove, a causa dell’asimmetria informativa, l’Ente pubblico non è in grado di dimostrare se eventuali interruzioni del servizio o violazioni di standard ambientali siano dovuti ad eventi casuali o ad un comportamento non adeguato dell’impresa; in tal caso non può richiedere l’intervento di un terzo (giudice) per punirla. D’altro canto, l’eventuale minaccia di annullare il contratto con l’impresa, nel caso di violazione di standard socialmente accettabili, non sarebbe credibile poiché la complessità della tecnologia e la specificità degli investimenti non consentirebbero una sostituzione, almeno nel breve periodo, dell’impresa inadempiente con un’altra pubblica o privata. Inoltre, anche se fosse credibile, questa minaccia non sarebbe efficace giacché il rischio di essere espropriati anche per eventi non dipendenti dal proprio comportamento ridurrebbe ulteriormente gli incentivi dell’impresa a realizzare quegli investimenti socialmente desiderabili.
Passiamo adesso ad analizzare l’altra argomentazione a favore dell’utilizzo dei contratti di partenariato nei servizi di pubblica utilità, ossia quella relativa ai vantaggi derivanti per la collettività dal trasferimento all’impresa privata, in tutto o in parte, dei rischi connessi al verificarsi di eventi futuri non prevedibili al momento della stipula del contratto.
Durante il periodo contrattuale si possono verificare aumenti di costo sia nella costruzione che nella gestione dell’infrastruttura dovuti ad eventi eccezionali o ad aumenti imprevisti dei prezzi dei fattori; ritardi nei tempi di realizzazione dell’opera causati da particolari caratteristiche morfologiche e ambientali non accettabili inizialmente; riduzione dei ricavi a causa di variazioni della domanda del servizio derivanti da variazioni demografiche e/o reddituali.
Trasferire all’impresa privata il rischio connesso a tutti o a parte di questi eventi, significa stabilire ex-ante nel contratto tariffe invariabili per tutto il periodo della durata contrattuale e far pagare all’impresa privata il costo derivante dal mancato rispetto dei termini di consegna anche se dovuto a ragioni indipendenti dalla propria volontà. Ciò inevitabilmente comporterebbe la fissazione di tariffe molto più elevate di quelle necessarie ad assicurare un profitto normale, al fine di indurre l’impresa a partecipare a bandi di gara per la realizzazione del progetto. In questo modo il costo del rischio verrebbe a sua volta trasferito, in una qualche misura, sulla collettività, senza che questa abbia alcuna possibilità né di controllare il comportamento successivo dell’impresa, né di ottenere parziali rimborsi, sotto forma di tariffe più basse, nel caso del mancato verificarsi di aumenti costi o riduzioni della domanda.
Inoltre, il trasferimento del rischio sull’impresa privata richiederebbe l’impegno da parte dell’Ente pubblico a non rinegoziare i termini del contratto di fronte al verificarsi di eventi imprevisti, ma tale impegno non può essere credibile in contratti di durata pluridecennale.
Nel caso dì rinegoziazioni, la proprietà dell’infrastruttura gioca un molo fondamentale. Infatti, il risultato della rinegoziazione dipende dal potere contrattuale delle parti che, a sua volta, dipende dalla perdita che deriva a ciascuna parte da una rottura contrattuale. La proprietà dell’infrastruttura, conferendo il potere di disporne l’uso, rende meno onerosa la rottura contrattuale per la parte proprietaria che è quindi in grado di influenzare a proprio favore la rinegoziazione. Ne consegue che il trasferimento della proprietà dell’infrastruttura all’impresa privata indebolisce la forza contrattuale dell’Ente pubblico in un’eventuale rinegoziazione, soprattutto nel caso di contratti che riguardano servizi di pubblica utilità la cui fornitura deve essere garantita in ogni evenienza. In questi casi, infatti, l’eventualità di una rottura del contratto, con la conseguente cessazione del servizio, avrebbe conseguenze così socialmente dannose da rendere poco credibile una qualche opposizione da parte dell’Ente pubblico a modifiche dei termini contrattuali a favore del privato. Ciò è tanto più vero nel caso in cui la realizzazione dell’infrastruttura richieda tecnologie complesse ed elevati costi iniziali d’investimento che rendono impraticabile, almeno nel breve periodo, una sostituzione dell’operatore esistente con un’altra impresa privata o pubblica.
Dall’analisi fin qui svolta si può affermare che il ricorso a forme di partenariato che attribuiscono ad un’impresa (o consorzio) privata la progettazione, la realizzazione, la gestione e il finanziamento di un’opera di pubblica utilità, trasferendone la proprietà per la durata del contratto, può avere delle conseguenze sociali altamente indesiderabili in presenza delle seguenti condizioni:
1) elevato grado di incertezza e di asimmetria informativa riguardo le variabili economiche rilevanti e le attività dell’impresa; in tal caso l’unico modo per indurre un comportamento efficiente dell’impresa privata è l’adozione di una regola di prezzo che traduca la quasi totalità dei risparmi di costo in profitti, piuttosto che in benefici per la collettività; 2) forti esternalità negative, in termini di peggioramento della qualità e affidabilità del servizio, generate dalle attività realizzate dall’impresa per ridurre i costi; 3) necessità di investimenti in manutenzione e miglioramento delle infrastrutture e di sviluppo di sistemi adeguati di controllo che garantiscano il rispetto di standard qualitativi e ambientali; si tratta di tutte quelle attività i cui benefici sociali sono superiori a quelli privati e che non verrebbero realizzate da imprese che perseguono l’obiettivo del profitto nel breve periodo; 4) indisponibilità di indicatori unanimemente condivisi per misurare la qualità e l’affidabilità del servizio e impossibilità dell’Ente pubblico di imporre sanzioni nel caso di violazione. Ciò dipende dalla presenza d’incertezza e di asimmetria informativa per cui l’Ente appaltatore non è in grado di dimostrare se il mancato raggiungimento degli obiettivi sociali sia dovuto ad inadempienza dell’impresa o ad eventi casuali indipendenti dalla sua volontà; 5) rilevanza sociale del servizio di pubblica utilità che obbliga l’Ente pubblico a garantirne la fornitura in qualunque evenienza. Questo aspetto concorre, insieme alla complessità e specificità della tecnologia necessaria per la produzione e l’offerta del servizio, ad indebolire fortemente la forza contrattuale dell’Ente pubblico nei confronti dell’impresa privata proprietaria dell’infrastruttura e, di conseguenza, favorisce rinegoziazioni dei termini del contratto nettamente a favore dell’impresa privata.

Il partenariato pubblico-privato e le politiche dello smaltimento dei rifiuti

Sulla base dell’analisi fin qui svolta (soprattutto delle considerazioni del paragrafo precedente), in questa sezione intendo spiegare perchè la scelta della politica dello smaltimento rifiuti basata sugli inceneritori possa produrre conseguenze sociali indesiderabili.
Il punto di partenza è dato dall’osservazione che i costi elevatissimi della costruzione dell’impianto, non sostenibili dal bilancio dell’Ente locale, e la complessità della tecnologia rendono inevitabile per l’Ente locale far ricorso ad un contratto di partenariato pubblico-privato che attribuisce la progettazione, la costruzione, la gestione e il finanziamento dell’impianto ad un’impresa privata che ne è proprietaria per tutta la durata del contratto necessaria a coprire il costo iniziale dell’investimento. Le caratteristiche tecnologiche del processo di smaltimento dei rifiuti basato sugli inceneritori e il suo impatto ambientale sono gli elementi principali che rendono il ricorso a questo contratto di partenariato non desiderabile per il benessere collettivo, come argomentato in quanto segue.
Innanzitutto, la complessità ed elevata specificità della tecnologia, sia di costruzione che di gestione dell’impianto, rendono estremamente difficile per l’Ente locale stimare correttamente i costi che un operatore efficiente dovrebbe sostenere e, di conseguenza, indurre l’impresa a realizzare tutti i risparmi di costo che quella specifica tecnologia consente, con vantaggio per la collettività in termini di tariffe più basse. Infatti, l’impresa privata può utilizzare il vantaggio informativo riguardo la tecnologia o per non sostenere tutto lo sforzo necessario a realizzare i risparmi di costo, o per appropriarsi, in tutto o in parte, del profitto derivante dalla riduzione dei costi con scarso o nullo vantaggio per il bilancio dell’Ente locale e quindi della collettività.
In secondo luogo, uno degli aspetti più critici del processo di smaltimento dei rifiuti basato sugli inceneritori è l’impatto ambientale connesso alla combustione che rilascia sostanze altamente inquinanti e difficilmente controllabili. Ciò richiederebbe un’attenta valutazione da parte dell’Ente locale nella scelta dei siti dove localizzare gli impianti e ciò, a sua volta, presupporrebbe la predisposizione di un piano complessivo di scelte industriali e di organizzazione del territorio. In mancanza di tale piano, dovuta in particolare alla debolezza e frammentazione del contesto istituzionale, l’urgente necessità di affrontare il problema dello smaltimento dei rifiuti comporta inevitabilmente la delega della scelta dei siti alle imprese private le cui decisioni sono ovviamente orientate da una logica di profitto a breve e non da considerazioni ambientali. Ciò è esattamente quello che è avvenuto in Campania dove il bando di gara indetto dal Commissario straordinario ai rifiuti, Rastrelli, affidava all’impresa privata vincente il compito di localizzare i siti.
Inoltre, la rilevanza dell’impatto ambientale dell’attività degli inceneritori rende cruciale per l’Ente locale indurre l’impresa a limitare quelle attività che, al fine di risparmiare costi, generano esternalità negative in termini di inaffidabilità degli impianti e maggiore inquinamento e, allo stesso tempo, a realizzare tutte quelle attività di manutenzione degli impianti, di miglioramento sia della tecnologia di combustione che dei sistemi di controllo del rilascio di sostanze inquinanti, che concorrono al rispetto degli standard ambientali. Tuttavia, a causa della non osservabilità delle attività dell’impresa, l’Ente locale potrebbe indurre la stessa a comportarsi nel modo desiderato soltanto con la minaccia di una forte penalità nel caso accertasse la violazione degli obiettivi sociali e ambientali stabiliti. Ma tale minaccia non sarebbe credibile per i seguenti motivi. Innanzitutto è molto difficile poter misurare l’impatto sull’ambiente dell’attività di combustione degli inceneritori. Infatti, per quanto siano dotati di sistemi di controllo che dovrebbero garantire un rilascio ridotto delle sostanze inquinanti, ci sono molti dubbi sull’effettiva efficacia della misurazione ditale impatto, poiché le altissime temperature utilizzate nel processo di combustione producono neoparticelle finissime che sfuggono al controllo. In secondo luogo, se anche la violazione degli standard ambientali fosse accettabile, tale violazione non potrebbe essere sanzionata perchè non sarebbe possibile dimostrare se essa dipende dalla mancata cura dell’impresa o da eventi casuali. Infine, se anche fosse possibile dimostrare la responsabilità dell’impresa, la necessità di assicurare la fornitura del servizio, unitamente alla complessità della tecnologia, renderebbe impossibile qualsiasi sostituzione con altra impresa, almeno nel breve periodo, vanificando eventuali minacce di annullamento del contratto.
Un’altra caratteristica della tecnologia associata agli inceneritori, che rende il ricorso al contratto di partenariato socialmente indesiderabile, consiste nel fatto che il funzionamento efficiente dell’impianto richiede la combustione di una quantità elevata costante di rifiuti. Ciò ha due conseguenze. Da un lato, il contratto di partenariato deve impegnare l’Ente locale a corrispondere una tariffa predeterminata corrispondente alla quantità di rifiuti necessaria per il funzionamento dell’impianto: ne consegue che l’Ente locale si assume il rischio che la quantità di rifiuti effettiva sia inferiore a quella richiesta trasferendone il costo sulla collettività. Dall’altro lato, c’è incentivo da parte dell’Ente locale a non favorire lo sviluppo di attività alternative di smaltimento rifiuti e di tecnologie di produzione che riducano la quantità di rifiuti (come esplicitamente consigliato dagli artt. 5 e 6 della Direttiva Europea 2006) al fine di aumentare la quantità da bruciare nell’inceneritore. Questa scelta è dettata dalla necessità di rendere conveniente per le imprese private l’investimento nella costruzione e gestione dell’inceneritore con la garanzia di alti ricavi commisurati alla quantità di rifiuti da bruciare.
Le conseguenze sociali negative generate dal ricorso al partenariato per la realizzazione e gestione degli inceneritori sono accentuate dall’elevata durata contrattuale. Questa comporta un rischio elevato di rinegoziazione del contratto al verificarsi di eventi imprevisti che influenzano la profittabilità dell’investimento iniziale dell’impresa privata. Infatti, il trasferimento della proprietà dell’impianto all’impresa privata, la necessità di garantire la fornitura del servizio, la difficile se non impossibile replicabilità della tecnologia, il mancato sviluppo di attività alternative, sono tutte condizioni che concorrono ad aumentare moltissimo il potere contrattuale dell’impresa privata nella rinegoziazione e a rendere non credibile qualsiasi minaccia di annullamento del contratto da parte dell’Ente locale anche nel caso di violazioni degli standard minimi socialmente accettabili. Ciò favorisce quel perverso intreccio collusivo di interessi privati e politici reso possibile anche grazie all’impossibilità di un controllo dal basso, a causa della complessità e specificità della tecnologia.
L’analisi svolta fornisce, a mio parere, delle validissime argomentazioni contro una politica di smaltimento dei rifiuti incentrata sull’impiantistica degli inceneritori e a favore di una politica orientata al ciclo di raccolta differenziata, selezione dei rifiuti, compostaggio, riciclo e riuso. La realizzazione di tale politica, infatti, non richiede necessariamente il coinvolgimento di imprese private nella costruzione e gestione sia degli impianti di selezione che di compostaggio, poiché questi hanno costi che possono essere sostenuti anche dall’Ente locale e perché la tecnologia utilizzata è meno complessa e più facilmente replicabile di quella associata ai termovalorizzatori.
D’altro canto, le caratteristiche di questo processo di smaltimento dei rifiuti sono tali da limitare gli svantaggi per la collettività che potrebbero derivare da un eventuale coinvolgimento di imprese private nella costruzione e gestione degli impianti. Infatti, da un lato, la minore complessità tecnologica di questi impianti, rispetto a quella degli inceneritori, riduce il grado di asimmetria informativa dell’Ente locale che può indurre l’impresa a comportarsi in maniera efficiente con un minor costo per la collettività in termini di minor profitto. Dall’altro lato, il limitato, se non nullo, impatto ambientale delle attività per la selezione e compostaggio dei rifiuti riduce molto i rischi di danni sociali e ambientali che derivano dal ricorso a contratti di partenariato in tutti i casi in cui l’Ente locale non è in grado di monitorare l’attività dell’impresa e non può indurre il rispetto di obiettivi qualitativi e quantitativi socialmente desiderabili attraverso la minaccia di sanzioni.
A tutto ciò va aggiunto che una politica orientata al riciclaggio e al riuso dei rifiuti, diversamente da quella incentrata sugli inceneritori, favorisce lo sviluppo sia di attività alternative di smaltimento dei rifiuti che di innovazioni tecnologiche finalizzate alla diminuzione della quantità dei rifiuti prodotta. La presenza di alternative, unitamente ad un certo grado di replicabilità della tecnologia da parte di altre imprese, contribuisce a ridurre molto il potere contrattuale dell’impresa privata nelle rinegoziazioni contrattuali che sono inevitabili nei contratti pluridecennali. Ciò potrebbe consentire all’Ente locale di opporsi a modifiche contrattuali a vantaggio di interessi privati e favorire una maggiore trasparenza nei rapporti istituzionali tra pubblico e privato, soprattutto in quei contesti istituzionali che garantiscono una partecipazione e controllo della collettività, elementi cruciali per il buon esito di queste politiche.

Considerazioni finali

La questione dirimente che emerge da queste note è la necessità di rivitalizzare la funzione pubblica per metterla in grado di assolvere i suoi compiti, irrinunciabili alla luce delle precedenti considerazioni. A mio parere la riforma del sistema pubblico passa anche per un’inversione del processo federalista, teso a trasferire sempre più funzioni agli Enti locali. Tale processo, infatti, da un lato, a causa delle insufficienti risorse locali, porta inevitabilmente ad una privatizzazione dei servizi locali con conseguenze negative in termini di efficienza e di raggiungimento di obiettivi socialmente rilevanti. Dall’altro lato, piuttosto che rendere possibile una maggiore rispondenza ai bisogni dei cittadini ed un loro maggior controllo, il progressivo trasferimento di funzioni agli Enti locali rischia di favorire scambi tra interessi corporativi di soggetti pubblici e di gruppi privati. Ciò richiama la necessità di una centralizzazione di alcune funzioni che, a sua volta, rende improcrastinabile una riforma ed un rafforzamento del sistema fiscale centrale, tale da garantire un efficiente ed efficace svolgimento delle funzioni pubbliche.


Riferimenti bibliografici essenziali

Commissione Europea, (2003) Libro Verde sui Servizi di Interessi Generale, Com (2003) 270.
Commissione Europea, (2004) Libro Verde relativo ai Partenariati Pubblico-Privati e al Diritto Comunitario degli Appalti Pubblici e Concessioni, Com (2004) 327.
Dewatripont, M. e P. Legros, (2005) “Public-Private Partnership: Contract Design and Risk Transfer”, in EIB Papers, Innovative Financing of Infrastructure – the Role of Public-Private Partnership: Infrastructure, Economic Growth, and the Economics of PPPs, vol. 10 (1), pp. 120-145.
European Commission, (2003) Guidelines for a Successful Public-Private Partnerships, march 2003, in http ://europa.eu.int/comm./regional_policy/sources/docgener/guides/PPPguide.htm
Grout, P., (1997) “The Economic of the Private Finance Initiative”, Oxford Review of Economic Policy, 13 (4), pp. 53-66.
Laffont, J.J and J. Tirole, (1993) A Theory of incentives in Procurement and Regulation, The MIT Press, Cambridge Massachusetts.


Note

* Docente di Scienza delle Finanze all’Università degli Studi di Napoli “Federico Il”.
1 Gli eventi qui riportati sono descritti in L’emergenza rifiuti in cinque violazioni, recensione di Guido Viale al libro di Paolo Rabitti, Ecoballe. Tutte le verità su discariche; inceneritori; smaltimento abusivo dei rifiuti. Testimonianza shock su Napoli e Campania, 2008, pubblicata su ‘Il Manifesto’ del 12 luglio 2008.
2 Questa argomentazione è stata alla base dell’introduzione dell’istituto del public-private partnership o del private finance initiative nel Regno Unito. Si veda, a questo proposito, Commissione Europea, 2004 e Grout, 1997.
3 Uno dei testi fondamentali di riferimento per l’analisi teorica della regolamentazione in contesti di asimmetria informativa è Laffont e Tirole, 1993.